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Al ritorno dal Bellini, dove è andato in scena fino a domenica “Qualcuno volò sul nido del cuculo” (nella foto, un momento della rappresentazione).
Standing ovation per la raffinata regia di Alessandro Gassmann, per la potenza di luci, musica e videografie, e soprattutto per l’interpretazione veramente esaltante di Daniele Russo, senza escludere nessuno dei componenti del cast, tutti attori di primissimo ordine, capaci di tenere in pugno l’attenzione (e la tensione) del pubblico per quasi tre ore.
Un successo che si intuisce già duraturo, come riconosciuto unanimemente dalla critica. Che però non ha sottolineato abbastanza il ruolo chiave  svolto dall’adattamento di Maurizio de Giovanni. È alla sua penna infatti che si deve la rinnovata freschezza di un’opera scritta più di mezzo secolo fa. Infatti, lavorando sulla traduzione italiana (firmata Giovanni Lombardo Radice) del testo teatrale di Dale Wasserman tratto dal romanzo di Ken Kesey, de Giovanni ha scavato nell’anima di quei personaggi ormai datati e, liberandoli da ogni orpello, li ha restituiti alla loro verità.
Via dunque ogni riferimento all’America degli anni Cinquanta, coi suoi ritmi country e i suoi guantoni da baseball, via le nostalgie da reduci e gli echi di un remotissimo Far West. L’azione si sposta ad Aversa, 1982, ospedale psichiatrico. I personaggi diventano italiani, il protagonista un napoletano. I contesti cambiano, i sentimenti no. Dolore e rabbia; speranza, allegria e tenerezza sono tutti lì. Intatti. Veri. Rimbalzano sullo spettatore e gli entrano dentro, lo indignano, lo coinvolgono in una risata o in un pianto. Gli fanno ritrovare la sua umanità.
È l’arte della parola che de Giovanni possiede e padroneggia con una semplicità spiazzante: che racconti l’ennesima indagine o un’azione del suo Napoli, riesce sempre ad arrivare al cuore.
È questa l’alchimia della sua scrittura. Il suo talento. Davanti al quale non possiamo che inchinarci perché è davvero straordinario nella capacità di modulare la lingua, plasmandola alle vibrazioni dei sentimenti
Le numerose recensioni dello spettacolo, seppur molto positive, non rendono giustizia all’arte di de Giovanni. Anzi, risultano alquanto semplicistiche nel presentarne il lavoro come una “napoletanizzazione”. della versione originale.
Lo scrittore, infatti, non si è prestato a una banale operazione di trasposizione, ma ha restituito verità interiore e consistenza umana a dei personaggi lontani nel tempo e nello spazio. E di un napoletano, di cui ha sfruttato lo stereotipo dell’avanzo di galera, ha fatto l’eroe positivo. Un campione dell’acume e dell’ingegno. Un modello di generosità allegra e di amicizia incondizionata. Un piccolo uomo che esorcizza la paura con uno sberleffo e, sfidando la morte, diventa un gigante.
Come un cercatore d’oro, Maurizio de Giovanni setaccia l’anima di questa terra, la libera dalle incrostazioni del pregiudizio e ne tira  fuori un materiale prezioso. L’oro di Napoli c’è ancora ed è la sua gente, cui l’arte della parola riesce a restituire la dignità.

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