Esistono storie di uomini e di donne, di popoli, di vite che, malgrado gridino la propria identità, la coscienza umana, in un atto egoistico, rimuove, modifica, mistifica.

Ma, al contempo, esistono anche storie di donne e di uomini che, per un ostinato abito del proprio “sentire”, ascoltano quelle voci, le vivono e, con la forza della verità delle parole e delle azioni, le raccontano.

Ed è così per Cecilia Dalla Negra, giornalista, scrittrice, esperta di Palestina e di una terra che da millenni rappresenta la profonda frattura tra umanità e umanità, tra religione e religione, e l’insensata afasia delle promesse di Dio e delle sofferenze dell’uomo, che sabato 20 aprile, a partire dalle ore 20:00, al Godot Art Bistrot di Avellino, nell’ambito della rassegna letteraria Trame Mediterranee (ideata e curata da Rosanna Sirignano), presenterà il suo libro “Si chiamava Palestina, storia di un popolo dalla Nakba a oggi” (Aut Aut Edizioni). Oltre all’autrice, sarà presente anche Maria Rosaria Greco, curatrice della rassegna “Femminile Palestinese” che descriverà la Palestina attraverso la cultura e la voce delle sue donne.

Con “Si chiamava Palestina, storia di un popolo dalla Nakba a oggi”, Dalla Negra ricostruisce, con storiografica e quasi “notarile” precisione, gli ultimi settant’anni della storia dei Palestinesi, fissando, nel 1948, un nuovo (ed ennesimo) anno zero: l’anno della Nakba, la catastrofe che vide l’espulsione di migliaia di persone dalla Palestina e la distruzione di centinaia di villaggi a opera del nascente Stato di Israele. 

Il cammino che Dalla Negra intraprende, segue la strada della disperata perdita di una terra, calpestata, in uno con il popolo Palestinese, dal processo di colonizzazione israeliano; strada che giunge, nella narrazione, sino agli eventi attuali segnati dalla “Grande Marcia del Ritorno”, luogo simbolico in cui la storia della Nakba e la sua attualità si incontrano.

Se è tristemente vero che la storia la fanno i vincitori, è altrettanto confortante avere, per i vinti, la certezza che ci siano persone che, per senso di giustizia e di rispetto verso la vita, hanno il coraggio e la volontà di restituire alla storia il suo valore di verità, nel tentativo che l’uomo inizi a capire e a sensibilizzarsi per ciò che realmente è “patrimonio dell’umanità”: l’essere umano nella sua totalità.

Con facilità, infatti, ci si impietosisce, empaticamente, per disgrazie che accadono a persone o a cose nelle quali ci riconosciamo, perché vicine alla nostra storia, cultura o alle nostre esperienze di vita, restando poi indifferenti verso tutto ciò che non ci “appartiene”, condannandoci così ad una profonda solitudine esistenziale.

In un passo di “Una trilogia palestinese”, Mahmud Darwish scrive: “Una giovane soldatessa mi ha bloccato chiedendomi della mia bomba e della mia preghiera. Mi sono scusato dicendo: “Non combatto e non prego”. “Perché sei venuto a Gerusalemme allora?”. “Per passare tra la bomba e la preghiera, a destra macerie di guerra, a sinistra macerie di Dio, ma io non combatto e non prego.” “Cosa sei?”. “Un biglietto della lotteria tra la bomba e la preghiera.” “Cosa ci faresti? Cosa faresti se vincessi?”. “Comprerei un colore per gli occhi della mia ragazza”; è forte (e forte deve essere), dunque, la speranza che ci sia un colore che riesca a dare nuovamente luce e profondità allo sguardo di tutti i profughi (non solo palestinesi) orfani delle proprie terre.   

di Marco Sica