Calcio, psicodiagnosi di un tifoso in crisi
L’Italia è da tempo fuori dal gotha del calcio. Gli italiani assistono ai mondiali dandosi il tono di distaccati osservatori, coltivando l’illusione di godersi spettacolo e bel gioco. Si tratta in realtà di un maldestro tentativo di elaborare un lutto. Un vero processo di elaborazione di un dramma collettivo implica, però, quale efficace reazione, l’individuazione delle cause e il tempestivo ricorso ai possibili rimedi. Del declino del calcio italiano, fino ad oggi, sono state, invece, del tutto esorcizzate le ragioni profonde ed in alcun modo attivate le soluzioni possibili. Il declassamento del calcio italiano è speculare alla condizione in cui versa il Paese. La nazionale non si è classificata ai mondiali e, considerato il parco calciatori disponibile, sarebbe stato clamoroso il contrario. Il calcio italiano era in grave crisi già nel 2006, l’anno dell’ultima Coppa del mondo. Quel mondiale fu vinto quando la palude di Calciopoli imperversava e Giraudo e Moggi erano i padroni del vapore. Sono trascorsi inutilmente 12 anni e la nazionale guidata in successione dai ct Lippi, Prandelli e Ventura è riuscita a conseguire i seguenti straordinari obiettivi: 1) arrivare ultima al primo turno dei mondiali del 2010 in Sud Africa, dopo Paraguay, Slovacchia e nientepopodimeno che Nuova Zelanda; 2) farsi eliminare subito dai mondiali in Brasile arrivando terza, nella fase a gironi, preceduti da Costa Rica e Uruguay; 3) non qualificarsi ai mondiali di Russia cui partecipano invece Arabia Saudita, Islanda, Corea del Sud e Tunisia. La società italiana ed il suo campionato di calcio si sono, nel frattempo, perfettamente globalizzati: non formano eccellenze e non selezionano più campioni, li importano secondo i dettami mercatisti ordoliberisti. Le squadre di A, ma anche di B, sono imbottite di stranieri, spagnoli, colombiani, marocchini, egiziani e persino coreani del Nord. La colonia degli slavi però è quello meglio assortita. Il ct di una nazionale, però, sopra ogni altra cosa, è un selezionatore. Che si tratti di “fighetto” Mancini, o chiunque altro, il parco calciatori cui attingere talenti è certamente della medesima aridità. La questione è anche un’altra: dal 1982, anno in cui l’Italia ha vinto i mondiali di Spagna, è stato introdotto il terzo straniero ed il calcio italiano ha perso oltre un terzo degli spettatori. Chiunque ha giocato a calcio sa che assistere alle partite in tv è un insufficiente surrogato. Lo stesso che distingue l’amante dal pornografo. Le multinazionali pay tv si sono, nel frattempo, progressivamente impadronite del sistema calcio, imponendo regole e meccanismi unicamente funzionali alla produzione dei loro profitti e delle esigenze degli sponsor. Le partite sono spalmate nel corso dell’intera settimana e in orari improponibili: si inizia il venerdì, con l’anticipo di B, e si finisce il lunedì, con il posticipo di A. Il martedì ed il mercoledì si gioca la Champions - che ha sostituito la Coppa dei Campioni cui partecipavano, appunto, solo le vincitrici i rispettivi campionati – con i preliminari, i gironi ed un interminabile corredo di partite inutili. Il giovedì è riservato all’Europa League, ormai declassata al livello della vecchia cara Mitropa Cup, cui non si rinunzia perché anche tale torneo genera diritti e profitti. In definitiva, quello che si gioca in Italia è un campionato cosmopolita: militano nelle squadre italiane un gran numero di stranieri, non di rado brocchi clamorosi, che cambiano squadra ogni anno anche in pieno svolgimento del campionato alterando, in tal modo, i principi naturali della competizione agonistica. Agli atleti italiani andrebbero riservate delle quote di rappresentanza sui campi di gioco della penisola, per evitare almeno l’estinzione della specie. La nostra leva è stata sacrificata alle ragioni dell’economia e del mercato che hanno prevalso, come sempre, sull’interesse nazionale e sulle ragioni dello sport. Il calcio è stato progressivamente svuotato dei suoi consustanziali contenuti identitari, simbolici, rituali, mitici e passionali che, però, il mondiale di calcio, orfano dell’Italia, in qualche modo preserva. Nelle rappresentative nazionali i tifosi continuano ancora a riconoscersi nella maglia, nei colori, nei vessilli, negli atleti connazionali e nei giocatori simbolo che scendono e si confrontano sul rettangolo di gioco. Il calcio italiano sconta il mancato ricambio generazionale. All’origine di tale vulnus non vi sono solo ragioni sistemiche ma anche cause antropologiche: l’abbandono dei giovanissimi è aumentato. Non hanno fame di gloria. Con l’uso di samrthphone e videogiochi, ogni forma di soddisfazione virtuale è, senza fatica e sacrificio, a portata di mano dei più giovani. Gli istruttori, quando non scendono in campo fanaticamente i genitori, già pretendono a dieci anni di imbottire i ragazzi di tattica e giri di campo, annichilendo nell’allievo la fondamentale dimensione ludica e del sogno. Ne è derivata l’eclissi di una scuola e di una filosofia di gioco, naturale espressione del genio e del temperamento italico. Alle ragioni del declino nessuno, per ora, sembra intenzionato a concretamente porre rimedio.