La dissoluzione dei poteri dello Stato
Non che possa dirsi l’attuale congiuntura costituzionale tecnicamente contro letterali dettati della carta fondamentale. La Costituzione italiana, provvidamente, non pone tempi né scansioni: all’articolo 92 si limita a stabilire che il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio e, su proposta di quest’ultimo, i ministri. Tutto qui. Ed è evidente la ragione: si tratta d’un passaggio politico-costituzionale di grande delicatezza perché serve a dar forma all’istituzione dello Stato chiamata ad attuare le politiche del Paese, guidandolo nelle sue scelte fondamentali e mantenendo coesa la Pubblica Amministrazione (cosa nient’affatto semplice). Allora è evidente che, in questi periodi, alla politica devono essere lasciati i suoi spazi, che poi sono i tempi ed i modi in cui essa può comporsi intorno a formule appropriate e capaci di reggere alle prove non da poco che incontra il concreto operare del potere esecutivo. Se non dinanzi ad una violazione costituzionale, a me però par che ci si trovi al cospetto d’una grave deviazione dalla prassi costantemente osservata, e questo è un sintomo di malessere ben più profondo di quanto già trasmettono le contorsioni di Lega e M5S nella ricerca d’improbabili comuni programmi, e coerenti. Da sempre, da quando cioè la costituzione italiana ha avuto attuazione, il percorso creato per dare una puntuale cornice a questa fase della vita istituzionale è stato quello delle consultazioni del Capo dello Stato: il quale, un po’ baroccamente, riceveva i suoi predecessori ancora in vita, i capi dei due rami del Parlamento, i maggiorenti delle forze politiche rappresentate in Parlamento e costituite in gruppi e poi: e poi procedeva all’incarico di Governo, accettato dal destinatario di turno con riserva. Accortezza che è sempre servita ad evitare di andare in Parlamento per esternare le ragioni del fallimento (e dunque a poter meglio trafficare dietro le quinte). Qualche volta s’è dato che, in ragione di particolari difficoltà, venissero istituiti soggetti ai quali non fosse conferito l’incarico, ma solo il compito di proseguire le consultazioni presidenziali, per così dire ad un livello più ravvicinato alle forze politiche, un livello che non appariva consono al ruolo del Presidente della Repubblica. Sintetizzata così, la cosa assume un po’ l’aspetto d’un rito vagamente sclerotizzato, ma tant’è e le istituzioni hanno necessità dei loro riti di legittimazione. Comunque, un fatto era che, dopo questo andirivieni dalla Vetrata, ad un incarico di Governo a stretto giro si perveniva. Il Presidente prendeva le sue decisioni, e continuità e stabilità delle istituzioni, almeno nella facciata, erano assicurate. Questo non sta accadendo nel momento attuale. Rispetto alla continuità del rito – che simboleggia la stabilità nelle istituzioni, l’assenza di vuoti di potere – in questa singolare crisi, nel corso della quale sembrano frantumarsi anche le geometrie politiche di partenza, ormai da una ventina di giorni, il Presidente della Repubblica è lì, fermo ed in attesa. Non c’è incarico di Governo, non ci sono consultazioni, non sta meditando alcunché. Semplicemente è idealmente fuori della porta di Di Maio e Salvini, in attesa che lo ricevano e gli comunichino, bontà loro e se vorranno, cos’hanno finalmente deciso, ma senza fretta. Vero che non sarà lui ad andare in giro per l’Italia (i due si riuniscono e s’incontrano per ogni dove) a chieder loro, di grazia cosa volete fare? Ma questa è la forma esteriore, perché la sostanza è che da circa un tre settimane il Presidente è ai comodi dei due leader di partito (se così può definirsi anche Di Maio): vale a dire che la massima istituzione dello Stato – quella che è chiamata a garantire al suo più alto livello la stabilità della Repubblica ed a proteggerla dalle deviazioni delle forze politiche, sempre tentate dal desiderio d’estendere smisuratamente i propri spazi di potere – è in attesa dei desiderata di due uomini. I quali, sia detto per inciso, tutto stanno mostrando, salvo che d’aver mai compreso cosa sia un uomo di Stato: lo Stato che vorrebbero profondamente riformare. Beh, questa è una situazione del tutto al di fuori delle prassi costituzionali: e le prassi, per la Costituzione, sono fattore normativo decisivo. È di piena evidenza come il Presidente della Repubblica non sia in grado di svolgere la sua alta funzione, sia privo d’ogni possibilità di condizionamento, sia stato posto in una situazione di stallo, tanto da esser stato costretto a dare ripetuti ultimatum (almeno a quanto se n’è letto sui giornali), tutti regolarmente disattesi e seguiti da altrettante richieste di proroghe, puntualmente ottenute. Un capovolgimento di ruoli e forze, a me pare, segno dei tempi e d’una dissoluzione dei poteri dello Stato che, singolarmente, nessuno mostra di notare, nemmeno quei costituzionalisti sempre pronti a lanciare alti lai a difesa dell’intoccabile Carta, presidio di libertà e diritti.