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La realtà come sughero, non si lascia annegare

Opinionista: 

La settimana appena trascorsa ha registrato un episodio di cronaca desolante, sul quale è calato comprensibilmente il farisaico silenzio nello spazio d’un paio di giorni. E se lo segnalo, non è certo per il gusto di mettere in evidenza aspetti negativi del contesto in cui viviamo, ma perché quel fatto è ahinoi “rappresentativo”, rappresentativo d’una realtà assai più radicata ed istituzionalizzata. Insomma, una chiave di lettura. A quel che è ufficialmente emerso, la Spinosa Costruzioni, impresa isernina, stava eseguendo lavori di rifacimento degli assi viari intorno all’area di Castel Capuano. Si tratta, come ognuno sa, non d’una triste periferia, bensì di uno dei luoghi simbolo dell’ex capitale, dove hanno avuto sede le corti angioina ed aragonese, dove ci sono stati sino ad un ventennio fa gli uffici giudiziari e dove sfocia il decumano maggiore, centro storico della città greco-romana e oggi luogo del risveglio turistico e culturale. Bene. Quell’impresa ha richiamato le brame della locale camorra, che colà divide il territorio a quel che si legge tra i clan Contini e Mallardo. Ha quindi denunciato le richieste di pizzo, ha resistito alle pressioni dei criminali che hanno per lungo tempo insistito (le prime richieste pare risalgano allo scorso anno). Fino a quando nei giorni scorsi le intimidazioni devono aver superato i livelli di guardia. Ed allora l’imprenditore ha deciso di dare un segnale non equivoco: ma non ai criminali, bensì agli organi dello Stato, alle istituzioni locali, periferiche e centrali, sino a quel momento, devo ritenere, nicchianti. E già il dover dar segnali alle istituzioni che dovrebbero operare nell’esercizio legale della funzione, ci dice verso quale territorio si sta traslocando. L’impresa ha, come si dice in gergo tecnico, iniziato il ripiegamento del cantiere: ha richiamato gli operai, ha prelevato gli escavatori e le altre attrezzature e ha dato il benservito alla stazione appaltante, il Comune di Napoli, finanziato dall’Unesco. Insomma, se n’è andata. Apriti cielo! Comune, Questura, Prefettura, Carabinieri, insomma tutto l’apparato di Stato ha finalmente compreso. La figuraccia di risonanza mondiale – siamo in un luogo Unesco, non nel Burkina Faso, luogo che pur meriterebbe miglior sorte. E così s’è messo in moto tutto il temibile rigore della legge. Assicurazioni all’impresa, indagini (peraltro assai agevoli, perché la zona è ampiamente monitorata), presenza delle forze dell’ordine, un bel po’ di retorica e tutto è tornato alla norma, con tanto di promessa dell’imprenditore di dispiegare il cantiere. Alla norma, appunto. Una bella messa in scena nel teatro della legge. Ma qualche domanda mi par lecito di sollevarla. Se un imprenditore deve diventare un attore – e non c’è qualcosa di più alieno alla cultura del fare, del mero rappresentare – significa che davvero non v’è stata alternativa possibile. Significa che tutti i passaggi, formali ed informali che – c’è da giurarci – il capitano d’azienda ha sicuramente attivato, a nulla gli sono serviti. È del tutto lecito, se non doveroso sul piano logico, inferire che le istituzioni hanno volto il guardo altrove. Sono rimaste sorde. E mute. Hanno, quel che poi è davvero più grave, esposto l’impresa al pericolo denunciato, le hanno implicitamente chiesto di vedersela da sola. Con i propri mezzi. Che per un’impresa – si sa – sono il danaro che la camorra le aveva insistentemente, pressantemente agognato, minacciando la morte o, questo è il meno, gravi danni materiali. E se l’impresa avesse ceduto, lo Stato avrebbe chiuso un occhio; salvo ad aprirli tutti e due, sopraccigliosi – e diventare inesorabile attuatore della legge – qualora un “pentito” avesse in un qualsivoglia processo blaterato. Ed allora, l’impresa malandrina avrebbe perso la sua adamantina purezza e sarebbe stata destinataria della terribile “certificazione antimafia”, che l’avrebbe posta tra i reprobi della società ed i nemici dello Stato (prima distratto). Non avrebbe potuto più partecipare ad alcuna gara, avrebbe chiuso i battenti, gli operai sarebbero stati licenziati. Nessuna giustificazione sarebbe stata ammessa. E, unico rimedio, sarebbe stata costituita un’altra impresa (con i medesimi capitali e molti a guadagnarci sulle sue disgrazie), cosi che l’eterno ritorno nicciano avrebbe potuto riprendere il suo corso. Anche le pietre sanno che dove non arriva l’ordine della legge, giunge l’ordine della forza bruta. L’ordine c’è sempre, serve. In queste settimane, anche a ragione della tragica vicenda della disgraziata Noemi, la narrazione pubblica ha grondato di stucchevole retorica. Che poi la retorica d’accatto non è mai solo stucchevole, perché serve a persuadere, a sviare l’attenzione a colmare con le parole i difetti della realtà. Ma la realtà dello Stato italiano è questa ed emerge per ogni dove. Si giocherella con le forme, ci si nasconde dietro non dicibili mediazioni, si chiedono sacrifici improponibili, per reggere un palcoscenico sempre più logoro ed incapace di mantenersi ai suoi cadenti sostegni. E così, all’altare del tragico compromesso si sacrificano i residui valori, le ultime testimonianze d’impegno civile, sopprimendosi la speranza e valorizzando gli opportunisti, magari anche allettando qualche cervello – vero o falso – da far rientrare, dopo la sua fuga all’estero. Insomma, si tenta d’annegare la realtà tra un mare di vuote parole, dimenticando che la realtà è come un sughero, il quale non si lascia affondare.