L’Europa manca di politicità
La tardiva presa di coscienza mostrata in questi ultimissimi mesi da vari uomini di governo europei, delle infime condizioni del consenso per le istituzioni dell’Unione, è difficile possa effettivamente esser determinante per le sorti di quella comunità internazionale varata con il Trattato di Roma del 1957, del quale si è "celebrato" sessantenario. Con espressioni più o meno usurate, è quasi unanime coro che l’Europa manca di politicità, che ha confinato il proprio ruolo alla dimensione economica, che non avverte le istanze dei cittadini. Sono, verrebbe da dire, le proverbiali lacrime d’alligatore. L’Europa è nata come tutti sanno da un’evoluzione d’un trattato internazionale, quello della Comunità europea del Carbone e dell’acciaio a guida francotedesca, un’intesa cioè con finalità essenzialmente commerciali e di coordinamento della produzione; e purtroppo, questa sua originaria natura se l’è portata dietro sino ad oggi. Certo, l’organizzazione s’è molto perfezionata ed ingrandita; s’è dotata di istituzioni che dovrebbero rappresentare democrazia, come l’elefantiaco ed improbabile Parlamento con le sue ben tre sedi; l’apparato di personale di cui si avvalgono la Commissione, suo organo esecutivo, il Parlamento ed il Consiglio, dove siedono i capi di stato e di governo che assumono le decisioni più rilevanti, raggiunge le 50mila unità. La sua produzione normativa, per numerosità e puntigliosità, non ha praticamente pari rispetto ad un qualsiasi altro Stato. Ma tutto ciò non ne ha mutato la natura: l’Europa è un ambiente per gruppi di pressione, emissari di potentati economici ed efficienti associazioni, che vivono autoreferenzialmente, con l’aggiunta d’una gran comprensione di se stessi. Come tutte le istituzioni dove l’obiettivo economico è il vero culto, l’unilateralità dei punti di vista s’afferma, si consolida, diviene inscalfibile. Come inscalfibili divengono i ministri del relativo culto, convinti come sono che il bilancio costi benefici debba muoversi unicamente secondo criteri di convenienza economica, calcolata da tecnocrazie ‘iperpreparate’ che menano gran vanto del non lasciarsi influenzare dalla politica: da loro intesa come attenzione a problemi delle persone comuni, considerati insidiosi ostacoli sulla linea diretta per l’accrescimento della ricchezza. L’Europa è stata questo da sempre, con l’aggravante negli ultimi anni d’essersi slargata, inglobando tra loro realtà nazionali troppo distanti tra loro per tante cose, senza nemmeno dotarsi dei mezzi per avvicinarne gli interessi. Ora, una simile anonima e farraginosa organizzazione, come potrebbe in pochi mesi trasmutare i suoi geni, dopo che li ha coltivati pervicacemente per un sessantennio? E perché poi ci si dovrebbe illudere che davvero tutti gli Stati membri ed in particolare quelli che – con la Germania in testa, ma non sola – in tanto hanno interesse a rimanervici, in quanto le cose non mutino nella sostanza, perché ci si dovrebbe illudere che davvero consentiranno il cambiamento, un cambiamento utile solo se radicale? È semplicemente impossibile che un tal grumo d’interessi, il grumo che ha dato anima, corpo e mentalità alle istituzioni europee, si dissolva nello spazio d’un mattino e si dissolva anche riuscendo a convincere gli elettorati ad esso ostili. Evidente che un politico appena avveduto, qualcosa del genere giammai la crederebbe. È chiaro che le sorti dell’Europa non potranno essere capovolte da manifestazioni come quella di Roma, utili solo a dare un po’ di scena – anche questo fa parte della commedia umana – ad antagonisti d’ogni sorta e a discorsi d’occasione (preparati probabilmente da oscuri funzionari europei, con scarsa fantasia e cultura da ufficio). Le sorti dell’Europa dipenderanno nell’imminente, dall’esito incerto d’alcune elezioni, quella francese in primo luogo, poi quelle italiane, e dall’effetto a catena che l’esempio britannico potrà provocare, soprattutto in considerazione di quel che sarà dell’economia inglese nei prossimi anni (io credo relativamente bene). Il tutto condizionato dall’andamento generale dell’economia. Il resto è chiacchiera e festino ufficiale, che dimostrano solo quanto le dirigenze abbiano ormai davvero assai poco da dire, se tutto quel che hanno saputo allestire è un solenne brindare sul nulla, prostrandosi anche dinanzi all’autorità religiosa: la quale, con gusto per essa antico e sottile, ha avuto agio di mostrare a sorridenti premier che il loro mestiere, proprio non sono stati in grado di farlo.