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L’ironia dell’ambasciatore tra intellettuali e politici

Opinionista: 

Molte polemiche la scorsa settimana sono venute dalla segnalazione d'alcuni nostri connazionali residenti in Inghilterra, circa la distinzione che varie scuole lì avevano adottato tra italiani, italiani napoletani ed italiani siciliani. Ed è stata un'altra occasione sprecata per prender coscienza d'una realtà sgradita ma purtroppo vera. S'è preferito valorizzare l'ironia con la quale l'ambasciatore Pasquale Terracciano, il nostro valente rappresentante diplomatico su terra inglese, ha ricordato ai governanti dell'Isola come l'Italia fosse paese uno a far data far 17 marzo 1861; ed, ovviamente, l'ambasciatore ha fatto il suo dovere, il suo dovere burocratico di rappresentare lo Stato; e l'ha fatto con sagacia. Ma, se il diplomatico aveva questo dovere, ben diverse riflessioni avrebbe dovuto suscitare la sua ironia tra intellettuali e politici. Perché l'ironia, quando esce dalle secche della burocrazia, fa, dovrebbe fare, la sua strada libera e corrosiva. E non fermarsi alla "ferma nota di protesta", ma aprir gli occhi su quel che è. Perché la vera, amara ironia è che, nonostante l'unità d'Italia abbia superato il secolo e mezzo di storia, essa non s'è affatto realizzata, nemmeno nella lingua. Perché, si noti bene, dalla perfida Albione s'è fatto notare, scoppiata la polemica, che quella classificazione nulla aveva del razzista, bensì si giustificava nello scopo, tutt'affatto didattico, di tener conto delle profonde differenze linguistiche al fin di favorire l'apprendimento dell'inglese. Vero o falso che sia – a me par vero – c'è il fatto: c'è il fatto che un popolo inteso del più elevato grado di pragmatismo, con i pregi ed i difetti che questo comporta, ancor vede l'Italia come coacervo di realtà culturali tanto distinte da richiedere variegata classificazione. Da sempre s'è saputo che per conoscere se stessi è necessario tener conto del giudizio altrui: ed una nota di protesta, per sagace ed ironica che sia, certo non vale a mutare la storica realtà di quel giudizio: che non è un errore – una gaffe direi di sì – bensì una valutazione maturata in chi ha guardato a noi con un fine concreto e ne ha tratto un giudizio pratico: siamo finanche sul (fondamentale) piano linguistico ancora molto distanti, italiani sì, ma di culture tropo diverse per definirci Paese nella sostanza. Ora, questo mi pare il punto: che vi siano differenze tra popoli con molto varia e lontana storia, istituzioni, vicende culturali e politiche, può essere un dato d'apprezzamento; che però queste differenze segnino solchi così profondi da rendere necessaria una diversificata qualificazione per chi con noi deve porsi in relazione, beh questo significa proprio quel che tutti sappiamo e che però non vogliamo accettare: che i 150 anni dall'Unità non sono serviti a creare un modello educativo, e quindi di cittadino comune. Non s'è verificato quel processo d'armonizzazione che le istituzioni scolastiche ed educative, l'uniforme applicazione delle leggi, l'adeguata distribuzione delle risorse e degli investimenti sull'intero territorio nazionale gradualmente avrebbero procurato. Si sono invece sviluppate soprattutto le sterili retoriche dell'unificazione nazionale, alle quali hanno corrisposto, sin dall'origine, condotte ipocrite e beffarde, disegni di sviluppo diseguali, sfruttamento, clientelismo, infingardaggine delle élites, disinteresse completo per l'elevazione culturale e soprattutto morale – che vuol dire diffusione del senso di responsabilità attraverso politiche pubbliche serie e rigorose – producendosi quindi un ambiente improduttivo e deprimente, che nel Mezzogiorno ha perpetuato l'immagine d'uno Stato da tener lontano ed, al più, da utilizzare come erogatore di (generalmente non dovute) assistenze. Lo sguardo dell'altro può essere dolorosamente penetrante, ma aiuta a comprendere, per chi sa giovarsene: noi abbiamo preferito affidarci ancora una volta alla dolceamara ironia delle note diplomatiche: secondo una tradizione che risale al conte di Cavour.