Se i fautori del “no” rileggessero Togliatti
Ancora un po’ di insulti, ancora un po’ d’invettive (altro i nostri politici non sembrano in grado di offrirci). Ma la nave del referendum - finalmente - sta per giungere faticosamente in porto. Manca ormai poco più di una settimana alla fatidica data del 4 dicembre e forse è giunta l’ora di lasciarsi andare a qualche riflessione. A suggerircene una, tra le tante, è un episodio che risale addirittura a settant’anni fa. Era il 27 novembre del 1947 e l’allora ministro dell’Interno Mario Scelba decise la rimozione dal suo incarico del prefetto di Milano Ettore Troilo, sostituendolo con Vincenzo Ciotolo che era, all’epoca, alla guida della prefettura di Torino. Successe il finimondo. Troilo era stato un comandante partigiano che i comunisti consideravano un eroe e il Pci ritenne la sua defenestrazione un’offesa alla Resistenza. Di qui una serie di manifestazioni che sfociarono in un grande corteo guidato da Giancarlo Pajetta, al termine del quale i manifestanti occuparono la prefettura. Soddisfatto dell’impresa, Pajetta chiamò al telefono, a Roma, Palmiro Togliatti, segretario del partito. “Compagno Togliatti – disse trionfante – abbiamo occupato la prefettura di Milano!”. La replica del Migliore fu fulminante e glaciale: “Bravo! E adesso che ve ne fate?”. La risposta del leader del Pci, che lasciò di sasso Pajetta il quale si aspettava chissà quali elogi, era perfettamente in linea con il realismo che caratterizzò sempre la sua linea politica, ispirato al principio secondo cui, in politica, prima di compiere una qualsiasi azione è necessario avere ben chiaro quali ne saranno le conseguenze. Qual è il nesso tra la battuta di Togliatti e il referendum prossimo venturo? Questo: che se, come la gran parte, anzi la totalità dei sondaggi (sulla cui attendibilità, visti i precedenti, non siamo, tuttavia, disposti a giurare) dovessero rivelarsi azzeccati, i sostenitori del “no” usciranno trionfatori dalle urne. Ma - ecco l’attualità della battura rivolta da Togliatti a Pajetta - di questa loro vittoria quale utilizzo potranno farne? È impossibile che la maggioranza referendaria possa riproporsi per varare una nuova riforma costituzionale (alla quale sarà opportuno mettere una croce sopra); è impossibile che il fronte del “no” possa servire a dar vita ad una maggioranza di governo, a meno che Massimo D’Alema, Pier Luigi Bersani, Matteo Salvini, Renato Brunetta, Cirino Pomicino e Beppe Grillo non ritengano di poter costituire un governo insieme; è impossibile che l’unità raggiunta nel dire “no” alla riforma possa ricomporsi per consentire l’approvazione di una nuova, indispensabile, legge elettorale. E allora? Per dirla sempre alla maniera di Togliatti, coloro che l’avranno ottenuta, cosa ne faranno della loro vittoria? Dicono i partner europei e d’oltre Atlantico: con la vittoria del “no” l’Italia tornerà all’antico vizio dell’instabilità perché il governo sarà, comunque, meno solido e meno credibile. Dice Bankitalia: i mercati vivranno un periodo di grande turbolenza e l’economia non potrà non risentirne ad ogni livello. Però - replicano i sostenitori del “no” - ci libereremo di Matteo Renzi o quantomeno, infliggeremo un duro colpo alla sua arroganza e lo costringeremo ad abbassare la cresta. È proprio così. La vera partita del 4 dicembre è questa. Un autorevole sondaggio ha rivelato, recentemente, che molti di coloro che sono chiamati al voto, non sanno quasi nulla dei contenuti della riforma sulla quale si dovrà votare, ma andranno alle urne avendo in testa che se il “sì” vincerà, Renzi resterà al suo posto; se vincerà il “no” dovrà fare le valigie e lasciare ad altri la poltrona di Palazzo Chigi. E, invece, bisognerebbe andare a votare infischiandosene del destino del signor Renzi, simpatico o antipatico che sia, e ponendosi l’unica domanda veramente importante: che cosa è meglio per il nostro paese? È su questa base e non in virtù di considerazioni meramente emotive che il 4 dicembre dovremmo compiere la nostra scelta.