Sentenza fantozziana sui moralisti grillini
Nemesi a Cinque Stelle. E non potrebbe essere altrimenti. Se chiedi le dimissioni di un sindaco per una Panda lasciata in divieto di sosta, ma poi ti arrestano il presidente della principale municipalizzata della città che governi e indagano il capogruppo del tuo partito in consiglio comunale, non te la puoi cavare con un’alzata di spalle. A chi dice che stavolta a dimetterti devi essere tu - tu che urlavi “onestà” quando a finire nel tritacarne mediatico-giudiziario erano gli altri - non puoi rispondere “non ne sapevo nulla”. Perché sull’aberrante principio del «non poteva non sapere», cara Raggi e caro Di Maio, si sono costruite fortune e carriere d’intere schiere di magistrati, politici, giornalisti e mezze calzette di quel giustizialismo che - gridando “onestà” - dello Stato di diritto e delle sue regole ha fatto strage. L’inchiesta romana che in questi giorni fa tremare (anche) il M5S è uno straordinario condensato d’ipocrisie, doppie verità, moralismo amorale e pesi e misure mai uguali. Loro, che per anni hanno degradato la presunzione d’innocenza a un fastidioso pettegolezzo, oggi accusano i giornali di aver fatto a pezzi proprio quel principio costituzionale; loro, dopo aver raccontato con Davigo che «non esistono innocenti, ma colpevoli su cui non sono state raccolte le prove», ora reclamano (giustamente) il loro status di non indagati; loro, che hanno sostenuto, coccolato e vezzeggiato un sistema che trasformava ogni inchiesta in una condanna, ogni intercettazione in una prova, ogni titolo di giornale in una sentenza inappellabile davanti al tribunale del popolo moralista, adesso lamentano che si stanno stracciando le più elementari regole, gettando secchiate di fango, confondendo millanterie e corruzione e mille altre cose sacrosante che per anni loro - sempre loro, grillini e Pd - si sono messi sotto i piedi. Sono stati loro, allevati a pane e Magistratura democratica, a godere dei dividendi dell’uso politico della giustizia. Degni eredi di quel Pci che, a partire da Berlinguer, ha progressivamente sostituito il vuoto ideologico con l’irrigidimento moralistico. Ora che la bufera giudiziaria li investe in pieno, dopo aver rovesciato insulti su Berlusconi, hanno improvvisamente riscoperto la parola garantismo. Ciò dimostra quanta ragione avesse George Orwell nell’avvertire che se il pensiero corrompe il linguaggio, anche il linguaggio può corrompere il pensiero. Sì, perché oggi il termine garantismo non è solo abusato, ma il suo significato è stato ribaltato. È diventato sinonimo del suo contrario. Pensateci, il coro delle facce “webeti” da talk show è unanime: «Siamo garantisti, non chiediamo le dimissioni di un politico raggiunto da un avviso di garanzia »; «lasciamo che la giustizia faccia il suo corso»; «siamo garantisti, lasciamo lavorare i magistrati »; «non commentiamo le decisioni della magistratura». Ecco cosa vuol dire per costoro essere garantisti: lasciare che i pm facciano ciò che vogliono, comprese indagini temerarie che finiranno in un nulla di fatto processuale, ma in devastanti sentenze mediatiche. Chi non protesta, chi sta zitto e chi, meglio ancora, coopera fiduciosamente con i signori inquisitori - ovviamente per tutto il tempo (biblico) necessario - è il nuovo, perfetto garantista. Un’inversione di significati che corrompe il linguaggio e pure il pensiero. L’incrocio micidiale tra un “garantismo” così declinato e la doppia morale dei giacobini dell’onestà, rischia di trascinarci in un nuovo oscurantismo in toga. Lo dimostra il sempre allegro Guardasigilli, Alfonso Bonafede, che di fatto vuole abolire la prescrizione, sancendo così la condanna preventiva tramite il processo perpetuo. Chissà, magari la bufera mediatico- giudiziaria nella quale sono finiti aiuterà i pentastellati ad aprire gli occhi. E a prendere atto di cosa siano le loro idee in materia di giustizia: una cagata pazzesca.