Violenza terroristica e colpe del potere
Imiei lettori più affezionati sanno quanto io detesti la political correctness e la sconfinata ipocrisia del sistema mediatico che vi si uniforma. Essi non si aspettano, quindi, da me alcuna concessione a coloro che si calano le brache di fronte all’invasione islamica e alla violenza che si nutre degli incitamenti contenuti nelle sure coraniche. Affrontiamo, quindi, senza preconcetti e acrobazie dialettiche le recentissime cronache della violenza terroristica. L’evento di maggior rilievo è stato, ovviamente, il duplice attentato messo a segno, due settimane fa a Teheran, da commandos del terrorismo sunnita. A richiamare l’attenzione non era tanto il numero delle vittime, pur rilevante, quanto le implicazioni politiche dell’azione bellica. In concomitanza con lo scontro fra Arabia, Egitto ed emirati da un lato e Qatar dall’altro, per tacere della guerra yemenita (che sembra non interessare i media), esse rendono probabile una nuova guerra di religione islamica. Se consideriamo anche l’abbattimento dell’aereo siriano a Raqqa per opera degli Usa e la dura risposta del governo russo, si rischia che nella guerra prossima futura fra sunniti e sciiti vengano coinvolti russi e americani, con le prevedibili drammatiche conseguenze per il mondo intero. Tra domenica e lunedì di questa settimana, ben tre episodi hanno ravvivato la cronaca. L’attacco jihadista di domenica scorsa in Mali, benché di notevoli proporzioni, non ha avuto grande risalto nel sistema mediatico. Cinque uomini armati hanno assaltato il resort La Campement Kangaba, popolato da turisti stranieri: il bilancio finale è stato di nove morti, cinque vittime (fra le quali due europei) e quattro assalitori, nonché quattordici feriti, mentre trenta ostaggi sono stati liberati dalle forze di sicurezza e un terrorista è riuscito a fuggire. Nessuno ha commentato l’evento, evidentemente considerato di routine. Appaiati nella data e anche nei commenti, invece, i due fatti di lunedì. A Parigi Adan Lofti Djaziri, musulmano trentunenne francese di origine marocchina, già noto alle autorità come individuo a rischio (“S” come salafita), s’è schiantato volontariamente contro un furgone della Gendarmeria di pattuglia sui Champs-Elysées. A bordo della sua auto Renault Megane Djaziri aveva 9mila munizioni; in casa sua è stato, inoltre, trovato un vero e proprio arsenale tra cui barili di polveri. Per fortuna, l’unica vittima è stata lo stesso attentatore, mentre gli agenti presi di mira sono rimasti illesi. A Londra è stato, invece, Darren Osborne, un bianco gallese padre di quattro figli, a piombare con un furgone su un gruppo di fedeli musulmani a Finsbury Park, vicino a una moschea dalla quale stavano uscendo le persone radunate per le preghiere del Ramadan. Otto feriti e un morto (che, però, era già stato colto da malore prima che avvenisse l’attentato). Grande l’indignazione non soltanto dei musulmani (fra cui il sindaco di Londra), ma anche di politici e gazzettieri. Ai musulmani vorrei ricordare che poco prima avevano disertato la manifestazione di protesta contro il terrorismo islamico e, quindi, non hanno il diritto di indignarsi. Agli altri vorrei spiegare che la colpa di quel che ha fatto Osborne è principalmente loro. Sono passati forse venti anni da quando scrissi su queste stesse colonne che nel tardo medioevo, quando non c’era la democrazia ma la libertà dei cittadini era molto più grande, vi fu un accordo: i cittadini rinunziavano alla vendetta privata e lo Stato s’impegnava a provvedere, in loro vece, alla persecuzione degli autori delle offese. In base al principio, di valore universale, per cui inadimplenti non est adimplendum, io ammonivo che le mancanze dello Stato, in materia di polizia (prevenzione) e giustizia (ripristino del diritto violato) avrebbero, alla fine, costretto i cittadini a rinnegare quell’accordo e riprendersi la vendetta privata. L’atto del gallese Darren Osborne, riprovevole sul piano morale e criminale su quello giuridico, è una diversa manifestazione di quella normale reazione che è la legittima difesa dei cittadini aggrediti da rapinatori armati. Lo Stato, se non è capace o non vuole togliere dalla circolazione i rapinatori, sempre recidivi, non può permettersi di perseguire (ma nemmeno di indagare!) le vittime che esso stesso ha costretto a sparare sui rapinatori. Allo stesso modo, lo Stato, che non vuole o non sa neutralizzare i terroristi islamici, è responsabile della reazione di persone esaltate ed esasperate che aggrediscono i musulmani. I politici e i giornalisti che condannano l’islamofobia (ivi compreso quel consiglio dell’Ordine che – ingiustissimamente - ha sospeso Filippo Facci) dovrebbero fare un esame di coscienza (se ne avessero!) e concludere che “chi è causa del suo mal pianga se stesso”. Il buonismo nei confronti di criminali comuni, politici e religiosi produce, necessariamente, reazioni violente, razziste e islamofobe. Io non le approvo e non le apprezzo, ma le comprendo perfettamente. Chi non lo fa è sciocco, sordo e cieco: se lo preferite, è buonista e islamofilo