Vincenzo Galgano (nella foto), magistrato per cinquant’anni, è stato Vice Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione e Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Napoli dal 2002 al 2010 quando ha cessato il servizio per sopraggiunti limiti di età. Attualmente è Primicerio dell’Arciconfraternita dei Pellegrini. «Ho studiato giurisprudenza seguendo tradizioni familiari. Mio nonno materno era avvocato, il fratello di mio padre è stato professore universitario di Procedura civile presso l’Università di Roma ed è stato uno dei creatori del diritto internazionale che allora si chiamava diritto comparato, perché studiava il collegamento tra i vari ordinamenti per vedere ove ci fossero somiglianze, ove diversità. Questo nella prospettiva che attraverso accordi internazionali si giungesse a una soluzione dei conflitti analoga in tutta Europa. Erano pensieri avveniristici per quei tempi, parlo di fine anni Venti inizio anni Trenta, quando l’Europa era dilaniata dalle dittature».

 Qual è stato il suo orientamento iniziale da studente universitario?

«Era diretto soprattutto allo studio del diritto civile».

 Perché?

«Abbiamo una specie di imprinting nel dna di famiglia. Oltre a mio nonno e a mio zio, ho un cugino, Francesco Galgano, che è stato uno dei più valenti avvocati civilisti di Napoli e professore di diritto commerciale all’università di Bologna».

 Lei, però, a differenza dei suoi parenti, ha scelto la magistratura. Il motivo?

«Non avevo alcun desiderio di svolgere un’attività professionale, quale quella dell’avvocato. Volevo solo studiare il diritto e svolgere attività giudiziarie in una posizione di terzietà che mi consentisse di risolvere i problemi secondo le regole che erano state oggetto dei miei studi».

 Qual è stato la sua prima sede?

«San Benedetto del Tronto».

 Quando è venuto a Napoli?

«Presto. Ero figlio unico di genitori anziani per cui cominciai ad avere bisogno di ritornare a casa nel più breve tempo possibile. L’unico spazio che mi si apriva per avere il trasferimento era la Procura della Repubblica di Napoli».

 Non ha potuto, quindi, realizzare il suo desiderio di dedicarsi al diritto civile?

«No perché ho svolto i compiti di sostituto procuratore della Repubblica. Era un lavoro per me completamente nuovo. Piano piano, però, ho scoperto quanto fosse appassionante».

 Perché?

«Era un lavoro che ci metteva a contatto con realtà drammatiche vissute da una popolazione sterminata e infelice. Mi riferisco alla cittadinanza povera che subiva tutte le negatività retaggio dell’Ottocento di cui abbiamo più recente memoria attraverso i nostri studi e le nostre letture. Ho cominciato a studiare e a capire veramente che cosa è il diritto penale. Così la mia vita è cambiata».

 In che senso?

«Il Codice Rocco del 1930 non era un codice illiberale per i tempi in cui era stato elaborato. Aveva una serie di posizioni che consentivano di fare un lavoro sollecito, gratificante e di evitare di commettere errori perché metteva in grado di effettuare una penetrazione diretta e costante, da parte di colui che portava avanti le indagini, di tutte le vicende accadute senza un enorme spreco di tempo qual è, invece, quello di cui adesso noi siamo testimoni ».

 Può essere più chiaro?

«Il processo, fino agli anni Settanta, aveva la caratteristica di essere scritto. Quando si celebrava, quindi, era una lettura di atti».

 E dopo?

«Si sono introdotte una serie di riforme che hanno reso più dialogico il rapporto accusa-difesa e si è data la prevalenza all’aspetto orale del contraddittorio avvicinandosi al sistema anglosassone. A differenza di quello, però, il nostro legislatore ha sempre conservato una forte diffidenza verso l’autorità giudiziaria in genere, per cui ha creato una serie di meccanismi di garanzie che hanno dilatato oltre misura il contradditorio orale tra le parti dinanzi al giudice. Questo ha comportato che i tempi processuali sono diventati lunghissimi. Siamo passati da un processo breve, quale era tutto sommato quello del Codice Rocco, dove gran parte degli elementi probatori erano consacrati in verbali assunti o dal Pm, oppure dal Giudice Istruttore, che quasi mai potevano essere messi in discussione dall’imputato o dai testi in udienza, a un processo in cui la prova viene assunta nel dibattimento e verbalizzata dal cancelliere mediante un sistema di registrazione. Su questo materiale, spesso trascritto, il giudice deve accertare o meno la consistenza dei fatti a sostegno dell’accusa. Oggi giudicare è più difficile, più faticoso e soprattutto più lento con un enorme spreco di risorse».

 Ne consegue che la riforma del procedimento penale ci ha fatto fare passi indietro?

«La riforma ha delle ragioni che la giustificano da un punto di vista concettuale perché si viene ad avere un rapporto con il giudice diretto e non attraverso verbali. Questa positività però impatta, come ho già detto, con lungaggini incredibili che spesso determinano anche “ingiustizie”. C’è poi l’estrema difficoltà di controllare il dibattimento perché questo è gestito da due soggetti che sono il pm e il difensore ciascuno dei quali s’impegna al massimo, negli interessi dei reciproci rappresentati, creando non di rado un clima di tensione asperrima. Non c’è più l’efficacia sterilizzante dei verbali contenenti l’acquisizione delle prove».

 Prima di arrivare al vertice della Procura Generale della Corte di Appello di Napoli, qual è stato il suo percorso professionale?

«Sono una persona che non ama fare sempre le stesse cose. Dalla Procura passai al Tribunale penale come giudice a latere. Quindi sono diventato Procuratore della Repubblica a Lagonegro. In questo ruolo sono diventato uno specialista nei reati contro la pubblica amministrazione».

 Come mai?

«La Basilicata in generale e Lagonegro in particolare sono territori poveri dove la criminalità organizzata non alligna. Tutte le questioni, anche le più banali, in materia pubblica tra gli elettori del vincitore e quelli perdenti vengono affrontate davanti al magistrato. È stata per me una grande palestra di formazione professionale».

 Dopo tre anni è rientrato a Napoli come Presidente della Prima Sezione della Corte di Assise. Qual è stato il suo primo processo?

«Quello a Raffaele Cutolo come mandante dell’omicidio del direttore del carcere di Poggioreale, Giuseppe Salvia. Fu un omicidio efferato. Credo che la mia sentenza di condanna all’ergastolo nei confronti del capo della Nuova Camorra Organizzata sia una delle poche rimasta intatta, cioè senza modificazioni della pena».

 Le è stata utile l’alternanza tra magistrato giudicante e quello inquirente?

«Moltissimo, perché mi ha dato una formazione culturale approfondita e più ampia. È esattamente il contrario di quello che si va vociferando adesso a proposito delle separazioni delle carriere. Proprio per essere stato giudice ho commesso meno errori da Procuratore della Repubblica. Così come essere stato inquisitore mi ha consentito di sbagliare meno come presidente del collegio giudicante. La Cassazione e la Procura Generale presso la Suprema Corte mi hanno poi consentito di fare studi particolarmente approfonditi sulla teoria generale del diritto. La Cassazione, infatti, studia le problematiche relativamente alla legittimità cioè se sono state o meno violate le regole sostanziali e quelle processuali».

 Qual è il compito del Procuratore Generale?

«È una posizione di vertice che comporta l’esercizio di controllo e la responsabilità dell’organizzazione dei vari uffici del pubblico ministero dell’intero distretto che dipende dalla Corte di Appello il cui presidente rappresenta la magistratura giudicante. Nel mio caso quella di Napoli, che è una delle più popolose d’Italia».

 Ha anche compiti requirenti?

«Il Procuratore Generale esercita anche la sua attività di giurisdizione in tutti i giudizi di secondo grado che si celebrano all’interno della Corte. Inoltre ha compiti di controllo sulle sentenze ».

 In che senso?

«Attraverso i suoi sostituti, può proporre appelli contro le sentenze di primo grado e ricorsi contro quelle di secondo grado quando ritiene che non siano conformi alla legge. Ha poi compiti di rogatorie all’estero».

 Quale è la differenza tra la Procura Generale e la Corte d’Appello?

«La prima, attraverso le varie procure del distretto, rappresenta la collettività e deve garantire il rispetto della legge penale. La seconda, invece, è organo giudicante e perciò ha una posizione di terzietà rispetto alle parti in causa».

 Come era la magistratura penale giudicante prima della riforma?

«Fino alla fine degli anni Settanta la qualità professionale era altissima».

 E quella civile?

«Sempre a quella data, costituiva uno dei migliori uffici d’Italia. Napoli era un’accademia del diritto civile. Naturalmente l’errore è umano, ma c’era una generalizzata volontà di agire correttamente ».

 E dopo?

«È cambiato il costume dei cittadini italiani. Sono diventati più deboli e più cedevoli alle tentazioni del quotidiano. I magistrati venivano da studi molto severi ma giusti, nel senso che il ragazzo che non rendeva era indotto a lasciare il liceo classico che era l’unico accesso alle professioni. Adesso vediamo, per esempio, avvocati e magistrati che vengono dalle accademie di Belle Arti. Questo deriva dal fatto che c’è una condizione generale di studenti universitari che è molto meno impegnativa. Sicuramente il movimento studentesco del ’68 ha contribuito fortemente a creare questo disimpegno».

 Il notaio prima di affrontare il concorso deve fare un periodo di pratica. Analogamente per chi sostiene l’esame di abilitazione alla professione forense. Perché non accade lo stesso per il magistrato?

«Ritengo che chi supera il concorso per magistrato, spesso per caso, non ha nessuna delle qualità che dovrebbero accompagnarlo nel lavoro giudiziario. Sembra che adesso comincino a rendersi conto della necessità di dare una preparazione di qualche rilievo ai laureati che vogliono fare i magistrati. È biasimevole che si faccia il magistrato perché si lavora quando si vuole, si guadagna molto e, nel caso dei pm, perché si ha la macchina di servizio e la scorta. Sono queste espressioni di potere rese più gravi per il mancato controllo che c’è in Italia sull’attività dei magistrati. Quello che sta succedendo a Napoli in questo periodo ne è un esempio».

 Che futuro vede per la nostra società?

«Dobbiamo recuperare il senso morale del dovere compiuto secondo quello che le regole prescrivono e le leggi dettano. Dobbiamo accettare di fare il nostro dovere perché è il nostro dovere senza tenere conto dei vantaggi che possiamo avere o il male che possiamo fare a un nostro antipatico vicino. Questo è il carattere vittorioso delle popolazioni anglosassoni protestanti rispetto al nostro. Fanno quello che devono fare e tutti insieme producono risultati che noi non abbiamo. Possiamo diventare un paese veramente democratico quando si sarà formato questo sentimento collettivo dell’adempimento del proprio dovere».