Tradizione e arte: la pizza è nel dna
di Mimmo Sica
Mer 26 Aprile 2017 23:09
Luciano Sorbillo (nella foto) è un autorevole esponente della terza generazione dei Sorbillo, la storica famiglia di pizzaioli napoletani. Persona poliedrica ed eclettica, ha voluto continuamente mettersi alla prova nel mondo lavorativo non dimenticando, però, mai la sua passione viscerale per la pizza che ha sempre fatto senza interruzione. Sposato e padre di Claudia Ines e Rodolfo, studenti liceali, è il titolare delle pizzerie “Luciano Sorbillo Pizz ’a street”, in vico Acitillo al Vomero, e di “Luciano Sorbillo n.1” a via Alcide De Gasperi.
Come nasce la sua passione per la pizza?
«Ce l’ho nel sangue perché sono nipote e figlio d’arte. Mio nonno Luigi, uno dei 36 figli di Giuseppe Sorbillo, aprì nel 1935 una sua pizzeria in via Tribunali 35. Lui e nonna Carolina misero al mondo 24 figli. Uno di questi era mio padre Rodolfo, che di giorno lavorava con i genitori e la sera faceva il pizzaiolo all’Antica Pizzeria Marino a Santa Lucia. Fin da bambino, nonostante frequentassi in semi convitto l’istituto Denza dei padri Barnabiti, papà impose a me e ai miei tre fratelli e alle due sorelle, di abbinare allo studio l’apprendimento dell’arte di fare la pizza. Il suo sogno era quello di aprire una pizzeria per ciascuno di noi ma non lo ha potuto realizzare perché morì giovane, a cinquant’anni ».
Come ricorda suo padre?
«Era una persona buona e molto dolce. Non dimenticherò mai quando mi diceva di essere stato il pizzaiolo del Principe de Curtis. Mi raccontava che quando Totò andava da lui in pizzeria si sedeva sul marciapiede a mangiare la pizza cha papà gli aveva fatto a “portafoglio” e lo faceva sedere accanto a lui. Quando andava via gli dava una mancia di 1.000/1.500 lire che all’epoca erano una fortuna. Papà diceva: “quando viene il Principe è come se avessi fatto 13 alla schedina”. All’interno della pizzeria ci sono immagini che lo ritraggono insieme al grande artista».
Dove ha imparato il mestiere?
«Da zia Esterina, la primogenita dei nonni che aveva ereditato da loro la pizzeria. Papà e gli altri fratelli lavoravano con lei che faceva loro anche da madre».
Quanto tempo c’è stato?
«Ho iniziato molto presto. Studiavo e lavoravo. Durante il periodo di chiusura della scuola facevo le “stagioni” spostandomi a fare il pizzaiolo in giro per l’Italia. Ritornavo con un guadagno molto elevato che mi consentiva di vivere in tutta tranquillità fino all’estate successiva».
La sua prima esperienza di lavoratore in proprio non è stata però quella di pizzaiolo…
«Non ho mai smesso di fare le pizze anche se contemporaneamente ho voluto cimentarmi in altro. Infatti, terminato il liceo, mi iscrissi alla facoltà di economia e commercio e sono stato tra i pionieri della Sim (Società di Intermediazione Mobiliare) con il Banco di Napoli per il quale sono stato supervisore, come consulente esterno, per quattro anni».
Ci racconti…
«Ferdinando Ventriglia, “Re Ferdinando”, come lo chiamavamo tutti nell’ambiente dei banchieri e dei bancari, aveva progettato di aprire 500 sportelli “leggeri” e interpellava anche me per vedere dove era più opportuno collocarli».
Che cosa erano?
«Strutture molto snelle composte da un responsabile, un cassiere e una persona al riscontro. Ero chiamato con altri colleghi per fare un’analisi microeconomica in base a determinati elementi rapportati a parametri precostituiti e indicavamo per ogni zona richiesta la probabile clientela per i servizi offerti dallo sportello. In seguito passai ad Ambroitalia, la rete di promotori finanziari del Banco Ambrosiano Veneto, dove sono rimasto per tre anni come area manager».
Pizzaiolo e promotore finanziario. E poi?
«Me ne andai in Svezia, a Göteborg, aprii con un amico un locale al centro della città che si chiamava “Cappuccino” perché volevo fare conoscere agli scandinavi questa nostra particolarissima bevanda. È stato proprio in questa città che ho iniziato le prove generali di quella che di lì a poco sarebbe diventata la mia attività lavorativa definitiva. Al “Cappuccino”, infatti, offrivamo anche la montanara, la pizza fritta e il croquette di patate. Il giovedì, venerdi e sabato, poi, collaboravo con un ristoratore italiano, che viveva lì da 40 anni, in un luogo chiamato Casa Italia, dove si riunivano gli italiani che erano arrivati in Svezia fin dagli anni ’60. Facevo le pizze».
Quando è ritornato in Italia, quindi, che cosa ha fatto?
«Aprii in via Piedigrotta con mio fratello Gigi la pizzeria “Maga Circe”. Decidemmo poi di spostarci in via Tribunali. Gigi fece una società con nostro cugino Antonio e aprimmo la pizzeria al civico 38. Io mi dedicavo particolarmente agli eventi esterni. Per esempio “Tevere Expò”, un evento che si organizza a Roma sul Lungotevere per tre mesi, “Gesualdo Folk Event” nel cuore dell’Irpinia, o ancora la “Festa del Broccolo Apriliatico”, sempre per fare conoscere la pizza napoletana».
Quando ha deciso di mettersi in proprio?
«Dopo “Tevere estate” del 2015. Ho aperto in vico Acitillo al Vomero “Luciano Sorbillo Pizz ’a street”».
Perché questo nome?
«Per dare il senso del popolo, della strada napoletana. All’interno del locale ci sono dei panni stesi proprio come si vedono passando per i Quartieri Spagnoli. Non dimentichiamo che la pizza è nata come il pasto della povera gente».
Ha aperto anche un secondo locale…
«Poco tempo dopo. Con alcuni amici imprenditori ho inaugurato “Luciano Sorbillo n.1” in via Alcide De Gasperi».
Ha una caratteristica…
«Proponiamo solo tre tipi di pizza: la marinara, la margherita e la pizza fritta con la stesura ad olio inventata da mia nonna».
Che cosa è la stesura a olio?
«È un modo di chiudere la pizza bagnandosi le mani nell’olio e sigillandola sul marmo freddo. Lo abbiamo imparato da zia Esterina».
Perché solo queste tre pizze?
«Ho voluto fare conoscere soprattutto agli stranieri che sbarcano nel nostro porto, le pizze che maggiormente ci caratterizzano nel mondo».
Come si differenziano le sue pizze da quelle degli altri Sorbillo e in generale da quelle di tutti i pizzaioli?
«Definisco il mio modo di fare la pizza “l’evoluzione della tradizione”. Ci tengo molto a utilizzare prodotti tipici della Campania e fornisco alla fine un prodotto molto leggero, perché la pizza come la si vuole fare oggi, usando prodotti industriali, non ha senso. Utilizzo otto tipi di pomodori diversi che sono varianti del pomodoro tipico dell’agro nocerino-sarnese. Sulla mia marinara c’è l’aglio dell’Ufita, nell’avellinese. Quello che oggi si mangia in Italia, per il 90% è cinese. Il fiordilatte è quello di Agerola. L’olio extravergine è prodotto dall’azienda Ciarletta che all’Expò di Milano ha ricevuto il premio di migliore olio extravergine italiano».
Anche la pasta è diversa?
«Un discorso a parte meritano le farine che sono frutto di uno studio attento che ho fatto negli anni e che sono l’ingrediente base della pizza. Da un chicco di grano si ricavano ben quattro tipi di farine che si distinguono in “meno raffinate” e “bianche raffinate”. Uso quelle meno raffinate tipo 1, lavorate a pietra. Sono fonte di fibre, vitamine A, B, C, E, D, ferro, magnesio e potassio. Le farine bianche 0, 00 e 000, invece, sono fonti di carboidrati e proteine».
Per quanto riguarda il forno?
«Sono contrario sia a quello a legna che a quello elettrico. Ne utilizzo uno ecologico, alimentato a gas metano estratto direttamente dal sottosuolo. In questo modo non inquino l’ambiente e non do al consumatore la tossicità derivante dalla combustione del legno e dai fumi. In effetti è un forno napoletano con biscotto di Sorrento, cioè con un pavimento in creta che mantiene il calore».
Ha fatto anche una importante esperienza all’Expò di Milano…
«Ho raccontato la storia della pizza e ho parlato della rapida diffusione del pomodoro, che in origine era considerato velenoso perché somigliava all’erba morella. Grazie a Vincenzo Corrado, uno dei maggiori cuochi che si distinsero tra il ’700 e l’800 e autore de “Il cuoco galante”, il pomodoro divenne l’ingrediente principe dell’omonimo sugo noto nel mondo per la pasta e la pizza».
E l’attività di promotore finanziario? «Sono ancora iscritto all’albo dei promotori finanziari e faccio consulenze ad alcune fondazioni per i loro investimenti». Progetti futuri? «Aprire locali all’estero con la formula delle tre pizze: marinara, margherita e pizza fritta».
È impegnato anche nel sociale…
«Insegno l’arte e la manipolazione della pizza ai bambini disagiati di Scampia con Opera Salute presieduta da Fernanda Spena. È una Onlus sponsorizzata dalla Fondazione Banco di Napoli, da Banca Fideuram e da Cirio Pelati Italiani Spa».
Ha qualche hobby?
«Gioco a tennis da 44 anni. Ho vinto con il Tennis Club Epomeo le ultime due edizioni della Coppa Italia a squadre del circuito Fit. Poi mi piace leggere».
Ci sarà per quanto la riguarda la quarta generazione dei Sorbillo?
«Mio figlio Rodolfo è ai blocchi di partenza. Ha 16 anni e studia. È un abile manipolatore di impasti. È un talento naturale e ha l’arte nelle mani».