Marco Demarco (nella foto) ha iniziato la sua carriera di giornalista ne “l’Unità”, di cui è stato vice direttore vicario. Ha fondato “Il Corriere del Mezzogiorno” e ne è stato il direttore fino al 2014. È editorialista del “Corriere della Sera” ed è il direttore della Scuola di giornalismo dell’Università Suor Orsola Benincasa. È cittadino onorario di Memphis, città statunitense del Tennessee.

«Nasco a Bagnoli e credo che questo luogo incompiuto abbia un po’ segnato la mia formazione. Ancora oggi è come se mi dicesse: attento, la storia non è sempre lineare. Ultimo di cinque figli, ho perduto mio padre quando avevo dieci anni. Ho vissuto la vicenda dell’Italsider dalla fine degli anni Sessanta fino alla dismissione sperando, come tanti, che qualcosa cambiasse. Oggi ho 63 anni e non ci credo più. In gioventù ho frequentato un’associazione cattolica dei Gesuiti. Erano preti operai che vivevano lontani dalla gerarchia e avevano molta esperienza nel sociale. Non a caso, passai quasi subito alla militanza politica. Mi iscrissi, con tanti compagni del mio gruppo nella sezione del Partito Comunista di piazza Ferrara, oggi piazza Salvemini».

Quale ricordo ha di quelle esperienze giovanili?

«Il primo che mi viene in mente? Una relazione che i compagni della sezione chiesero a me e al mio amico Antonino Beninato. Avevamo diciassette anni. Dovevano spiegare i fatti cileni, che stavano precipitando, e tutta la vicenda di Pinochet, di Allende e di Corvalàn. Studiammo di tutto e di più. A quel tempo la sinistra italiana si interrogava sulla possibilità di governare con il 51% di voti, e la riflessione di Berlinguer fu che non bastava, che bisognasse porsi il problema delle alleanze».

Quando maturò l’idea di fare il giornalista?

«Frequentavo il liceo Genovesi e un giorno andai al teatro San Ferdinando a vedere “Gli esami non finisco mai” di Eduardo De Filippo. Era la prima volta che entravo in un teatro. Un luogo magico di cui ancora ricordo l’odore del legno e il rumore dei passi sul palco. Vidi recitare Eduardo. Vidi per la prima volta la vita rappresentata dal vivo, non in tv o al cinema. Fu spiazzante. E mi colpi il valore simbolico della commedia. Scrissi una recensione per il giornalino ciclostilato della sezione del Pci. Ritornai al San Ferdinando a vedere Giorgio Gaber in “Anche per oggi non si vola”, e poiché c’erano molte affinità tra il suo spettacolo e quello di Eduardo, recensii anche quello. I due articoli andarono nelle mani di Ennio Simeone, il capo cronista de “l’Unità” a Napoli. Stava rinnovando la redazione e cercava collaboratori tra i ragazzi dai 18 ai 20 anni. Per questo leggeva i giornali delle sezioni comuniste. Individuò a Castellammare Antonio Polito e Luigi Vicinanza e a Bagnoli scelse me».

Accettò la proposta?

«Esitavo perché mi ero appena iscritto alla facoltà di Giurisprudenza ed ero sotto esami. Mi convinse Luigi Nespoli, il segretario Pci di Bagnoli. Era professore di filosofia e giocatore di rugby, un intellettuale vulcanico. A lui e a Ennio Simeone devo il mio tesserino di giornalista».

Ebbe inizio la sua brillante carriera professionale. Di cosa si occupava?

«Facevo critica teatrale. Avevo venti anni ed ero precario. Di lì a poco fui assunto e, come si dice, subito misi su famiglia. Sposai Ornella, conosciuta in uno dei primi servizi giornalistici sull’esame di Stato al liceo. Lei era all’Umberto. Io l’avevo sostenuto un anno prima al Genovesi. Poi è nato Daniele».

Quanti anni è stato alla redazione napoletana?

«Dieci. Dal teatro passai alla cronaca nera. Divenni cronista di politica, mi occupavo di Valenzi, primo sindaco comunista di Napoli. Alle pareti del mio studio ho tre disegni fatti da lui: uno è il mio ritratto da giovanissimo, il secondo è quello di Eduardo e il terzo riguarda uno sciopero generale. Valenzi disegnava mentre partecipava a riunioni. Su quegli stessi fogli annotava i suoi appunti».

Ha diretto anche una emittente televisiva.

«Per poco più di un anno, ai tempi del terremoto del 1980, quando fui richiamato al giornale. Era un’emittente televisiva del Pci, “Napoli58”. Il partito che dava lezioni a tutti, anche sul modo di fare televisione, non riuscì a tenerla in vita. Per me fu comunque un’esperienza straordinaria. Capii i meccanismi del montaggio: fare informazione componendo immagini e testo era un’esplosione di creatività».

Ritrornato al giornale andò alla direzione romana. Con quale incarico?

«A Napoli ero diventato capocronista. Poi ci fu la grande ristutturazione dell’“Unità” e andai a Roma insieme ad altri colleghi. Divenni redattore capo di notte».

Che cosa significa?

«È il giornalista che ha la responsabilità dalla prima all’ultima pagina quando tutti sono andati via. Da quel momento e fino a quando il giornale non esce nelle edicole, qualsiasi decisione spetta a lui. Nel caso specifico a me».

Qual è stato il fatto più importante che ricorda?

«La svolta della Bolognina. Il 12 novembre 1989 a Bologna, al quartiere Navile (ex Bolognina), durante le celebrazioni per il 45º anniversario della battaglia di Porta Lame, il segretario del Pci, Achille Occhetto, annunciò a sorpresa che avrebbe cambiato tutto del Partito: il nome, la bandiera, il simbolo e sarebbe cominciato il post comunismo. Fu il primo passo del processo che portò allo scioglimento del Pci e alla nascita del Partito Democratico della Sinistra. Il giorno dopo, “l’Unità” fu l’unico giornale a riportare quella notizia. Fu uno scoop».

Favorì anche la sua conoscenza con Paolo Mieli che poco dopo segnò un’altra svolta importante nella sua carriera professionale.

«Anche “Il Corriere della Sera” diretto da Paolo Mieli bucò la notizia. Mieli chiese chi lavorasse quella domenica all’“Unità” e gli fu fatto il mio nome. Dopo quache tempo mi volle incontrare e mi propose di collaborare con lui all’apertura di un nuovo giornale, “Il Corriere del Mezzogiorno” a Napoli. Aveva capito che “Il Corriere della Sera” era “milanocentrico” e che via via che si scendeva verso il Centro-Sud era letto sempre meno. Avvertì l’esigenza di meridionalizzare il più grande quotidiano italiano con un giornale locale allegato».

Lasciò il certo per l’incerto. Perché?

«All’“Unità” ero vicedirettore vicario ma credo che nella carriera professionale di un giornalista non ci possa essere niente di più bello e gratificante che fondare una testata. Così, nel 1997, è nato, e ancora gode di ottima salute, “Il Corriere del Mezzogiorno”».

È il direttore della Scuola di giornalismo dell’Università Suor Orsola Benincasa. C’è un futuro per i giovani che vogliono avviarsi a questa professione?

«La crisi del settore è nota a tutti, però su questo sono ottimista. Il processo di alfabetizzazione è notevolmemnte aumentato. Solo un sesto dell’umanità deve ancora imparare a leggere e scrivere. Questo significa che la platea di coloro che leggono e scrivono è enormemente più ampia. Occorre, però, che ci siano persone che sappiano navigare nel grande mare dei fatti e delle notizie. Questo è quello che si insegna nella scuola di giornalismo».

Ha scritto anche libri, in particolare su Napoli.

«Sono particolarmente affezionato al mio primo lavoro dal titolo “L’altra metà della storia”, edito da Guida. I motivi sono due: il primo è che ho riesaminato il “racconto” della città con l’esperienza di chi non era più comunista: così non tutti i cattivi, come Lauro, mi sono apparsi tali, e non tutti i buoni, gli intellettuali di sinistra, si sono rivelati lungimiranti. Il secondo è che ho avuto come compagno di viaggio il professore Giuseppe Galasso, la laicità fatta persona, il Benedetto Croce della mia generazione. Conservo con nostalgia la copia scritta a mano della sua prefazione al mio libro».

Di che cosa parla questo libro?

«Di Napoli. Del suo rapporto col passato, spesso manipolato, e col futuro, spesso anticipato. E tra gli esempi porto un episodio del film “Casablanca”. Mi riferisco alla scena in cui nel bar di Rick, interpretato da Humphrey Bogart, si confrontano i nazisti e i patrioti. Gli uni cominciano a cantare i loro inni, gli altri intonano la “Marsigliese”. A Napoli nel 1938, in attesa che Hitler venisse a Roma e poi qui da noi, alcuni gerarchi nazisti andarono a fare un sopralluogo nella birreria Lowenbrau di piazza Municipio. Si misero a cantare i loro inni. A un certo punto Renato Caccioppoli, matematico geniale, straordinario pianista, e di fede comunista, si mise all’organo e suonò la “Marsigliese” cantandola insieme alla moglie. Poiché il film è del 1942 è molto probabile che il regista si sia ispirato a quell’episodio napoletano. Di sicuro, non fu Caccioppoli a copiare il film. Ecco il futuro anticipato ».

Diceva anche di Achille Lauro...

«Lauro è invece un esempio di passato manipolato. Non mi sono mai fidato della demonizzazione che ne è stata fatta dalla sinistra, e non ho accettato che fosse rappresentato in maniera macchiettistica. Ho letto la storia in modo diverso e ho visto che tante cose dette non erano riconducibili alla realtà. Come la speculazione edilizia che è post laurina. Lauro è stato un personaggio di straordinaria attualità e ha anche anticipato di 50 anni Berlusconi, nel bene e nel male (televisione, giornale, calcio, politica)».

Perché non è più comunista?

«Un viaggio in Romania mi fece constatare quanto era diverso il comunismo raccontato da quello reale. Poi ci fu la caduta del muro di Berlino. Cominciai ad assumere un atteggiamento critico fino a quando incontrando Veltroni e Prodi cominciò la fase liberal-democratica. Ma definirsi “liberal-democratico”, mi rendo conto, vuol dire tutto e niente. Per me volle dire cambiare biblioteca e cominciare a studiare un autore come Isaiah Berlin, storico delle idee, liberale. Da lui sono arrivato a Karl Popper. Come da Fabrizio de André ero arrivato a Cesare Pavese, un comunista che mi piaceva perché diceva che non bisognava andare “verso il popolo”, ma ’“verso l’uomo”. Poi incontrai Mieli, maestro del disincanto, anche lui ex comunista. Cominciammo a ragionare di storia, mai uguale nel tempo; di politica, mai come appare; e di cultura, mai tutta “bassa” e mai tutta “alta”. Anche a Mieli devo molto. L’idea liberale mi ha poi accompagnato per un ventennio. Ma ora penso che anche il liberalismo, che pure ha vinto sul comunismo, che a sua volta aveva vinto sul fascismo, necessiti di una vigorosa spolverata. Ci sono troppo pochi ricchi, e ancora troppi poveri e troppe disuguaglianze».

Nel frattempo è arrivata anche la rivoluzione digitale.

«Ha cambiato tutto, devono cambiare anche i meccanismi della democrazia. Non credo nella favola della democrazia diretta, ma non credo neanche che quella rappresentativa non possa e non debba rinnovarsi. Mi affascinano le teorie che tendono a mettere insieme il vecchio e il nuovo, il non vincolo di mandato e il ricorso, talvolta, al sorteggio nelle nomine pubbliche; la responsabilità politica e lo specialismo della tecnica. Spero nelle prossime elezioni europee che sono molto importanti. Non ne ricordo altre così decisive».

Una considerazione sul nostro Paese?

«Non mi ha sorpreso più di tanto lo scoppio della bolla renziana, perché credo che l’Italia era qualcosa di diverso da come lui la raccontava. Renzi, insomma, è andato verso il popolo, non verso l’uomo. Mentre i gialloverdi stanno andando verso i singoli più che verso il popolo. Per questo, penso che l’attuale fase storica stia per compiersi, perché così non si può andare avanti. L’Italia va a fondo, non cresce e i tempi non coincidono con quelli di una stabilizzazione del sistema e di una ripresa del paese. Questa alleanza si scioglierà, è inevitabile, quando bisognerà fare i conti con l’economia reale: nessuno vorrà prendersi la responsabilità di mettere le mani nelle tasche degli italiani, e si andrà al voto. Per quel tempo spero possa prendere corpo una nuova realtà politica che punti sull’innovazione della democrazia, che non abbia paura della rivoluzione tecnologica, che non si dica riformista mentre in realtà è conservatrice».