Luca De Fusco (nella foto), laureato in discipline dello spettacolo presso il Dams di Bologna, è un regista teatrale e organizzatore culturale. É il direttore del Teatro Stabile di Napoli - Teatro Nazionale.

«Sono posillipino, figlio di un professore universitario di architettura e di una professoressa di letteratura spagnola. Dopo un lungo corso di studi all’Istituto Pontano ho frequentato il liceo Umberto. È una scuola laica dove ho imparato a fare una contestazione intelligente e costruttiva. Era il momento degli approfondimenti, dei seminari, del cineforum. In quel contesto ho cominciato a capire che cosa mi sarebbe piaciuto fare nella vita. Ma la decisione ultima l’ho presa sulla scia dei racconti di quel gruppo di napoletani composto da Franco Rosi, che era il più caro amico di mia madre, Peppino Patroni Griffi, Antonio Ghirelli, Maurizio Barendson e Raffaele La Capria. Uomini di cultura di alto profilo».

Quale fu questa decisione?

«Mi iscrissi al corso di laurea per Discipline delle Arti, della Musica e dello Spettacolo della Facoltà di Lettere e Filosofia di Bologna. Allora esisteva solo in quella città e quando ci andai c’erano docenti del calibro di Umberto Eco e Renato Barilli».

Senza alcuna esitazione?

«C’è stato un momento in cui avrei voluto fare lo psicoanalista. Sigmund Freud mi aveva affascinato fin da ragazzo. A 18 anni avevo letto la sua opera fondamentale, “L’interpretazione dei sogni”. Avrei dovuto, però, laurearmi in medicina e fare psicologia per potere poi realizzare il mio desiderio. Ma sette anni di corso di laurea per me erano davvero troppi».

Al Dams optò per il teatro e non per la letteratura e neanche per il cinema. Come mai?

«Dentro di me ho sempre avuto l’animo di intellettuale ma anche di un uomo pratico. Vedevo che i miei colleghi per fare un film impiegavano molto tempo. Non avrei mai sopportato un’attesa simile. Il teatro, invece, era più semplice da portare avanti, una specie di pret a porter rispetto all’alta moda. Questo però non significa che mi piaccia più il teatro che il cinema».

Quando ha fatto la prima regia?

«Nel 1975, nel glorioso Spazio Libero, che ancora esiste, di Vittorio Lucariello. Lo spettacolo si chiamava “Azules”, “Azzurri”, tratto da due atti unici di Garcia Lorca. ll primo importante è stato “Imago”, ispirato ai casi clinici di Freud. Tra noi teatranti a Napoli ci scherziamo ancora perché durava tre ore e mezzo ed era fatto su un estenuante rallenty come succede negli spettacoli di Wilson. Il pubblico era diviso tra quelli che volevano menarci e quelli che erano entusiasti. Ci dissero in camerino che fuori c’erano componenti sia dell’estrema destra che dell’estrema sinistra che volevano aggredirci. Avevamo 19 anni ed eravamo terrorizzati. Fortunatamente non accadde nulla. Però ricordo ancora che c’era tanta gente che discuteva sulla bontà dello spettacolo e fu una cosa molto interessante».

Qual è stata la sua prima compagnia?

«Si chiamava “Teatro Oggetto”. La misi su con Bruno Roberti che è diventato poi docente di cinema. Chiusa questa esperienza ne creai un’altra che si chiamava “Settimo Teatro”. Il 7 è stato sempre il mio numero preferito ».

Chi era il suo regista di riferimento?

«Robert Wilson. Da lui ho appreso il modo di fare regia mescolando cinema e teatro usando molto la luce. Vidi alla Biennale di Venezia “Einstein on the beach”, uno degli spettacoli più belli del Dopoguerra, meraviglioso, ipnotico. Fu la mia luce sulla via di Damasco».

Quando fece il salto di “qualità”?

«Nel 1985 il deputato Pietro Lezzi mi invitò a vedere come era stata mirabilmente restaurata la settecentesca Villa Campolieto. Gli dissi che mi sembrava un posto ideale per farci un festival. Mi rispose: “e perché no?”. Mi inventai uno dei primi festival tematici, il “Festival delle Ville Vesuviane - Progetto Settecento”. Non avevo ancora compiuto 30 anni e la mia figura di organizzatore aveva preso un grande preso. Con due amici aprimmo una terza associazione. La chiamammo “Due città”, ispirandoci a un libro di Elena Croce che racconta i dissidi di quelli che stavano a Napoli e che volevano andare a Roma. In poco tempo quella manifestazione diventò uno dei festival teatrali più importanti che c’erano in Italia. Per sette anni abbiamo fatto solo teatro del ’700».

Dopo l’esperienza delle Ville Vesuviane ebbe la nomina a direttore dello Stabile del Veneto.

«Si aprì tutto un altro libro. Il direttore di uno Stabile non solo è il direttore artistico ma cura anche tutta la parte gestionale e amministrativa. Quindi è un vero e proprio manager. É esattamente la funzione che svolgo allo Stabile di Napoli».

A Venezia è stato 10 anni. Che cosa ha tratto da quella esperienza?

«Una capacità manageriale che non avrei mai potuto acquisire con un festival. Ho dovuto poi confrontarmi con una realtà molto conservatrice per cui i miei spettacoli “L’isola del tesoro”, “Il viaggio a Venezia” e “Le memorie di Casanova”, che non a caso non erano testi teatrali, avevano un tasso di innovazione drammaturgica molto alto. Questo non andava in sintonia con quel pubblico che voleva qualche cosa di più tradizionale».

Era un modo di fare teatro decisamente innovativo. A chi si ispirava?

«A un principio espresso daTony Blair. Il premier inglese sosteneva che il servizio pubblico si deve fare in funzione di quelli che ne usufruiscono e non dei dipendenti del servizio stesso. Ho imparato, perciò, ad ascoltare gli spettatori cercando di servire sempre loro piuttosto che gli addetti ai lavori anche con l’obiettivo di educarli al teatro».

Nel periodo veneziano si è anche inventato l’attuale Premio Le Maschere. Come nacque l’idea?

«Mi chiesi come fosse possibile che non esistesse un David di Donatello per il teatro italiano. Mi inventai “Gli Olimpici del Teatro”. Quando lo abbiamo portato a Napoli lo abbiamo chiamato premio “Le Maschere del Teatro Italiano”. È diventato una trasmissione televisiva che si fa ogni anno».

Finita l’esperienza veneziana è venuto a Napoli. Perché?

«Il presidente della Regione Campania, Stefano Caldoro, cercava una persona con cui espletare la sua visione del teatro. L’idea mi piacque e la preferii ad altre proposte di lavoro che mi erano state fatte. A Napoli coesistevano due aziende: il Teatro Stabile e il Napoli Teatro Festival. Ciascuna con una propria struttura manageriale e artistica. A Venezia invece il Festival del teatro olimpico di Vicenza era stato da me inglobato nello Stabile. Assunsi la direzione di entrambe con l’obiettivo di realizzare l’incorporazione del Festival nello Stabile. In questo modo avremmo avuto dei numeri molto più importanti che avrebbero consentito allo Stabile di scalare diverse posizioni. Non ci riuscii, ma credo ancora fortemente in questa mia idea».

La grande battaglia che ha condotto è stata quella di portare lo Stabile a Teatro Nazionale.

«È una grande vittoria che va condivisa con tutta la città. Se c’è una cosa che mi fa infuriare è quando dicono che Napoli doveva avere in ogni caso il suo Teatro Nazionale ignorando l’enorme mole di lavoro che abbiamo dovuto fare per raggiungere questo risultato. La Sicilia ha Pirandello e Verga ma non c’è il Teatro Nazionale. Venezia ha avuto la nostra stessa apertura di credito nel primo triennio, ma nel secondo ha perduto il riconoscimento di Teatro Nazionale. Noi invece non solo siamo stati confermati, ma siamo passati dal settimo al sesto posto».

Qual è stata la chiave di questo prestigioso risultato?

«Un insieme di cose e un grande lavoro di squadra. Sicuramente l’intuizione determinante è stata convincere la Regione Campania a investire progetti europei sul Mercadante. Quando ci fu la verifica finale da parte del ministero con la Regione, i membri della commissione furono quasi increduli nel vedere che avevamo acceso un progetto, che si chiama verso il Teatro Nazionale, di così grandi dimensioni. Vedere lo Stabile diventare Teatro Nazionale è stato il più grande successo della mia carriera ».

Però ha dovuto rinunciare all’incarico di direttore del Festival.

«Mi dimisi perché il presidente della commissione aveva dichiarato alla stampa che non si poteva ricoprire contemporaneamente la carica di direttore del Teatro Nazionale e quella di direttore del Festival. Quando successivamente ho preso visione del verbale redatto dalla commissione ho letto, invece, che la sinergia di queste due strutture era bene accetta. Avrei potuto fare resistenza ma avrei ottenuto una vittoria di Pirro».

Qualche cifra ce la può indicare?

«Lo Stabile aveva un fatturato di 4mila euro. Oggi il Teatro Nazionale ne fattura per 11mila. Per quanto concerne gli abbonati, da 2.300 siamo passati a 7mila».

Qual è la forza del teatro?

«La capacità di inglobare tutto. Ha un linguaggio spurio e multisistemico».

C’è chi dice che sul palcoscenico si vedono sempre gli stessi attori mentre si dovrebbe operare un avvicendamento. Che risponde?

«È importante far capire alle persone che noi abbiamo formato allo Stabile diverse squadre. Una fa capo in linea di massima a me e ai miei attori. Una fa capo a Mariano Rigillo e a tutto quello che sta facendo con la scuola. Una fa capo a Claudio di Palma e a tutta la sua interpretazione, alla sua regia e i suoi attori. Una a Ruggero Cappuccio che va e viene ma ora tornerà. Lo Stabile non è una sorta di sub assessorato che distribuisce pezzettini di finanziamento. Questo modo di pensare crea una frammentazione del gusto e non è giusto. Il teatro non deve fare questo».

Quanto è difficile dirige una compagnia teatrale?

«Shakespeare scriveva sempre per la stessa gente. Altrettano faceva Molière. Mi ha raccontato Anita Bartolucci che gli attori della Compagnia dei Giovani, della quale faceva parte, trascorrevano anche le vacanze insieme proprio per conoscersi a fondo e sfruttare meglio le loro capacità. Finivano con il capirsi con uno sguardo. Questo è quello che sta succedendo a me negli anni. Mi capisco con Eros Pagni e Gaia Aprea con uno sguardo. Così accade anche con la maggior parte degli altri attori. Chiedo delle cose che so che saranno in grado di darmi e mai il contrario».

Qual è il suo metodo di lavoro?

«Sono uno che cerca di lavorare ogni giorno come se fosse l’ultimo. Uno che ha paura della morte e cerca di fare qualcosa che resti. Uno che pensa di essere artista e regista anche quando fa le organizzazioni culturali. Ronconi da vecchio mi disse: “tu ti diverti ancora a fare i cartelloni. A me piaceva ma non ne posso più”. Io invece mi diverto ancora a fare il direttore di teatro quasi come mi diverto a fare il regista».