Patrizio Oliva (nella foto) è stato campione olimpico a Mosca nel 1980 nella categoria Superleggeri. Diventato professionista, ha conquistato il titolo italiano, quello europeo e il titolo di campione del mondo di categoria. Successivamente è diventato campione d’Europa anche nella categoria welter. È laureato in scienze turistiche economiche aziendali e attualmente è attore teatrale. «Nasco a Napoli, ma le mie origini sono calabresi. Sono cresciuto nel quartiere di Poggioreale. Mio fratello maggiore, Mario, faceva il pugile. È stato anche campione italiano. A otto anni l’ho accompagnato per la prima volta alla palestra Fulgor, in via Roma, oggi via Toledo, dove si allenava. Fu un colpo di fulmine: rimasi affascinato vedendo quei ragazzi che portavano i pugni contro il sacco e capii immediatamente che fare il pugile era il mio destino».

Nel frattempo studiava. Dove?

«Frequentavo l’Istituto Don Orione in via Donnalbina. In quella scuola c’era stato anche mio fratello Ciro che poi morì a 15 anni per un tumore».

Qual è stato il suo maestro di boxe?

«A scoprire il mio talento fu Mario, che mi fece calzare i guantoni per la prima volta e mi segnalò al suo allenatore, Geppino Silvestri, che poì diventò anche il mio maestro. Mi chiamava “la speranza mia” perché da subito aveva intuito le mie grandi potenzialità».

Qual è stato il primo momento importante nella sua vita di pugile?

«Ero un bambino e mio fratello mi fece andare al mare con lui e i suoi amici. Mi disse di portarmi anche i guantoni. Nel gruppo c’era un altro ragazzino, anche lui amante del pugilato. Mio fratello “disegnò” sulla spiaggia un ring e ci invitò a boxare. Immeditamente intorno a noi si fece una piccola folla. Mettevo in pratica tutti i consigli che Mario mi aveva dato e quelli che mi guardavano dicevano: “ma è umano quel bambino?”».

E i primi combattimenti?

«Cominciai da principiante. Vincevo sempre. Poi ebbi la prima delusione. Arrivai in finale al campionato e salii sul ring sentendomi già campione e invece persi l’incontro. Avevo sedici anni. Piansi per giorni interi, ma poi analizzai la sconfitta, capii che non bisognava mai sottovalutare l’avversario e ripresi con più ardore di prima ».

Quando passò nei dilettanti?

«L’anno successivo il maestro Silvestri, per farmi acquisire esperienza, mi faceva partecipare ai campionati dei “grandi”. Feci gli interregionali e poi passai ai nazionali, quelli con i Seniores. Fu il mio exploit perché sconfissi il campione italiano al primo match e il campione del mondo militare al secondo match nella categoria dei pesi piuma, cioè 57 kg. I giornali cominciarono a parlare di me e Nino Benvenuti, che era a bordo ring, disse che gli somigliavo».

Poi diventò campione europeo juniores.

«Sono stato il primo italiano ad essere campione d’Europa juniores. Vinsi il primo match con un russo, poi sconfissi un bulgaro. In finale superai un tedesco».

A quel campionato è legato un simpatico aneddoto. Ce lo racconta?

«I dirigenti della Federazione Italiana non volevano portare la registrazione dell’inno nazionale perché non credevano che qualcuno di noi potesse vincere il titolo europeo. Quando arrivi all’aeroporto lo venni a sapere e dissi: “se non andate a prendere l’inno nazionale non parto. Vado al campionato per vincere e non per partecipare soltanto”. La mia determinazione li convinse».

La sua carriera da dilettante continuò a registrare successi. Diventò seniores e passò nella categoria dei pesi leggeri. Due volte campione italiano e poi vinse il titolo europeo. Quindi passò nei super leggeri e disputò il match di Colonia. Che cosa accadde?

«Era il 1979. Andai in finale ai campionati d’Europa assoluti e ci fu l’incontro “scandalo”. Avevo vinto in maniera netta il match contro un pugile dell’Unione Sovietica ma la giuria in maniera vergognosa mi diede un verdetto sfavorevole ai punti. Fu anche l’anno in cui fui assunto in banca».

Alle Olimpiadi di Mosca del 1980, si prese una schiacciante rivincita.

«Caso volle che in finale incrociai i guantoni con lo stesso pugile che mi aveva battuto a Colonia, Serik Konakbaev. Lo sconfissi ai punti all’“Olimpijskij” di Mosca davanti a 40mila spettatori e diventai il campione olimpico. Quella sera vinse chi aveva più voglia di affermarsi e le mie motivazioni erano enormi perché avevo promesso sul letto di morte a mio fratello Ciro che tutta la mia carriera l’avrei dedicata a lui e che la sua vita doveva rinascere nei miei guantoni. Fui proclamato anche miglior pugile delle Olimpiadi. Siamo solo due italiani ad avere questo premio: Nino Benvenuti e io».

Quando è diventato professionista?

«Dopo le Olimpiadi, perché con la medaglia d’oro avevo considerato raggiunto il mio obiettivo come dilettante ».

Che cosa significa essere professionisti?

«Il dilettante combatte per il titolo olimpico, il professionista per la borsa. Gli incontri hanno una durata diversa. Il dilettante si batte su tre round. Il professionista parte da sei round per arrivare a dodici nei campionati mondiali. Ai miei tempi i round erano quindici. Esistono delle associazioni che organizzano gli incontri. A livello mondiale, quando combattevo io, c’era la Wba (World Boxing Association) e la Wbc (World Boxing Council). Io diventai il campione del mondo per la Wba. Il mio procuratore era Rocco Agostino che aveva il team sponsorizzato dalla Fernet Branca. Era genovese ed era il migliore in Italia insieme ad Alberto Branchini. Scelsi lui perché già collaborava con la Fulgor di Silvestri dove praticamente sono nato come pugile. Agostino aveva come organizzatore Elio Cotena».

Come si organizza un incontro?

«Si fa un’asta tra gli organizzatori. Chi offre la somma maggiore se l’aggiudica. Successivamente, per fare fronte all’offerta fatta, bisogna trovare gli sponsor che cacciano materialmente il danaro che serve per le “borse” dei due pugili e per tutte le spese di organizzazione».

Campione italiano, europeo e mondiale.

«I primi due titoli li conquistai nei campionati disputati entrambi a Ischia. Quello mondiale lo vinsi a Montecarlo il 15 marzo 1986 combattendo contro un argentino».

Quanti incontri ha disputato in tutta la sua carriera?

«155. Ne ho vinti 150 di cui 70 per ko. Ne ho persi cinque di cui due come professionista. Ho terminato la carriera a 32 anni come campione d’Europa nella categoria Welter, cioè 67 kg».

Perché decise di smettere?

«Mi sentivo realizzato economicamente e mi piaceva rimetterni nuovamente in gioco in altre attività. Per questo motivo lasciai anche il posto in banca».

Che cosa fece?

«Inizialmente il testimonial per la Federazione Pugilistica Italiana per diffondere la boxe nel mondo. Poi per sei anni sono stato il commissario tecnico della nazionale e ho fatto l’Olimpiade di Atlanta è quella di Sydney. Quindi ho fatto il procuratore, in società con Cotena, per un team di professionisti. Per un periodo sono stato imprenditore nella ristorazione e sono membro di una società propriertaria di tre ristoranti, uno a Londra e due a Malta».

È molto impegnato nel sociale.

«Faccio parte, insieme ad altre eccellenze sportive e manageriali di Napoli, dell’Associazione Sportiva “Mille Culure” presieduta da Diego Occhiuzzi. Insieme a lui, poi, ho aperto una palestra a Soccavo dove facciamo fare sport a tutti i bambini che non possono pagare la quota mensile. Non abbiamo e non chiediamo alcun contributo pubblico. Ci autofinanziamo e un importante apporto economico lo abbiamo dai soci che si iscrivono ai corsi di fitness».

È diventato attore di cinema e di teatro. Quando ha scoperto di avere anche questo talento?

«La mia prima passione è il canto che ho avuto fin da bambino. L’ho sempre coltivata e durante la mia carriera, ospite in trasmissioni televisive, mi sono esibito come cantante per dimostrare quanto fosse sbagliata l’idea del pugile rozzo e ignorante. Sono stato anche a “Domenica In”. Comunque il mondo dello spettacolo mi ha sempre affascinato. Ho partecipato anche all’Isola dei famosi. La prima esperienza cinematografica l’ho fatta nel film di Mario Da Vinci “Napoli storia d’amore e di vendetta”».

E il teatro?

«L’occasione nacque per caso e fu preceduta da altre due esperienza cinematografiche. Partecipavo a un incontro di calcio per beneficenza. Il presidente della mia squadra era il regista Luciano Capponi. Quando mi vide mi disse: “lo sai che sei un grande attore?” e io gli risposi: “e tu lo sai che sei pazzo?”. Mi informò che stava facendo un film, “Butterfly Zone”, e che mi voleva come interprete in un “cameo”. L’ambientazione era l’aldilà e io interpretai un imperatore romano morto. Era il 2010. Dopo un paio d’anni mi richiamò e mi affidò la parte del protagonista nel suo nuovo lavoro, “Il flauto”. Il film fu un disastro, ma il critico cinematografico Valerio Caprara scrisse che da quel film era uscito un bravissimo attore che sarebbe piaciuto molto a Pier Paolo Pasolini per la mia comicità antica. Gli fece da eco Massimo Bertarelli. In quel film c’era un attore che aveva recitato nello spettacolo teatrale “Due ore all’alba”, scritto da Biagio Casalini, nipote di Pupella Maggio. Capponi rivisitò la drammaturgia e la mise in scena al Piccolo Eliseo a Roma. Mi volle come interprete di Pulcinella. I coprotagonisti erano Anna Capasso e Giulio Brando».

Come andò il suo debutto teatrale?

«Lo spettacolo era nato bello ma poi Capponi lo rese veramente brutto e complicato per noi attori perché cambiava il copione ogni sera. È stata comunque una grande scuola di recitazione e il mio secondo colpo di fulmine al punto che oggi dico che amo fare più il teatro di quanto abbia amato fare il pugile».

Lo testimonia il fatto che partecipa al Napoli Teatro Festival Italia. Tra i più prestigiosi a livello mondiale. Ci racconti...

«Nel 2014 mio nipote Fabio Rocco Oliva mi chiese di scrivere la mia biografia. Accettai a condizione che non fosse la solita storia di uno sportivo ma un romanzo a contenuti autobiografici. Nacque lo “Sparviero” che è stata considerata tra le migliori biografie di quell’anno. Fabio pensò che il romanzo potesse essere lo spunto di una drammaturgia da rappresentare in teatro. Scrisse “Patrizio vs Oliva” e la fece leggere al regista e attore Claudio Di Palma al quale piacque e la propose al direttore artistico di Napoli Teatro Festival, Ruggero Cappuccio. Anche lui l’apprezzò e la inserì nella sezione Sportopera. Lo spettacolo, con la regia di Alfonso Postiglione, prodotto da Maurizio Marino e Stefano Sarcinelli, è andato in scena a giugno dello scorso anno al Sannazaro facendo registrare una settimana di sold out. Sarcinelli, che ha registrato tutte le mie prove, vuole fare un docufilm sulla mia esperienza teatrale. È stata la mia consacrazione e ho ricevuto una standing ovation che io stesso ho dovuto fermare. Lo riproporremo a marzo al Mann e poi in giro nella prossima stagione».

Una vita dedicata allo sport, al sociale e a tanto altro. Un consiglio per i giovani?

«Lo esprimo nel mio romanzo e nel mio spettacolo. Non bisogna mai abbattersi. Vengo dal nulla e con forza, caparbietà, determinazione e rispetto dei veri valori della vita, sono diventato “qualcuno”. Da bambino mi dissero “ma è umano?”. Lo sono e chiunque, se lo crede veramente, può realizzare il suo sogno, proprio come ho fatto io».