Francesco Fimmanò (nella foto), Cassazionista, Ordinario di diritto commerciale all’Università statale, Direttore scientifico di due Atenei telematici (Pegaso e Mercatorum delle camere di commercio), autore di centinaia di pubblicazioni e massimo esperto di Società pubbliche, Fintech e Crisi d’impresa. È giudice tributario in Lombardia ed è stato Giudice federale della Federcalcio. È stato più volte commissario straordinario, è curatore di BagnoliFutura e quindici anni fa si è occupato del fallimento del Calcio Napoli. Da settembre è il vicepresidente del Consiglio di Presidenza della Corte dei conti. Un ruolo analogo a quello del vicepresidente del Csm, per i giudici contabili.

Cominciamo dalla fine e dalla prestigiosa carica in un organo di rilievo costituzionale?

«Il Consiglio di presidenza è l’organo di autogoverno della Corte e il vicepresidente laico, eletto dal Parlamento come Professore universitario, ha una serie di compiti e tra l’altro, come al Csm, presiede la commissione disciplinare. In verità, sono stato per anni nel comitato scientifico della Corte e ne conosco le grandi potenzialità, specie in questo momento storico. Si parla tanto di spending review ma la Corte è la pietra angolare per la seria e concreta riduzione degli sprechi, degli abusi e della corruzione. In questi anni sono proliferate Autorità e Commissari vari, quando la Costituzione affida all’antica istituzione questi compiti in cui già Cavour credeva fermamente. Per i padri costituenti la Corte è il custode della “sana gestione finanziaria” del patrimonio pubblico».

Infatti lei è un “fustigatore” delle società pubbliche da anni.

«Sono solo chi ha visto già negli anni ’90 che invece di essere utilizzate come strumento di efficientamento, le Partecipate venivano usate come escamotage per violare patti di stabilità e procedure ad evidenza pubblica, specie nelle assunzioni, appalti e forniture. Poi con il mancato consolidamento queste sono diventate anche un tappeto sotto cui nascondere i deficit».

Quindi non è contrario in astratto?

«No, ma gli enti pubblici devono assumere la gestione di servizi, solo se sono in grado di farlo a condizioni più favorevoli e più efficienti di quelle offerte dal mercato. Ciò purché il servizio, per sua natura, non renda necessario l’intervento pubblico, per le garanzie che solo questo può assicurare (si pensi alla giustizia o alla sicurezza per fare esempi efficaci). In Italia purtroppo sono state privatizzate, molto male, grandi realtà pubbliche come Telecom, e sono proliferate società inutili che hanno prodotto catastrofi. La vicenda Telecom è emblematica, di Autostrade non parlo per ovvie ragioni. E anzi il Sud ha bisogno di grandi società pubbliche in settori strategici e quelle rimaste sono indispensabili per attrare investimenti, come traino soprattutto nelle neonate zone economiche speciali».

Lei ha promosso come curatore azioni clamorose verso gli enti per i crack delle Partecipate a cominciare da Bagnolifutura.

«Io sono un Ordinario di diritto commerciale e so quanto lo strumento delle società sin dalla Compagnia delle Indie orientali del 1602 sia stato fondamentale nel progresso dell’umanità, ma una cosa è l’uso virtuoso, altro è l’abuso che determina la doverosa sanzione ai cattivi amministratori. Il settore, ad esempio, del trasporto pubblico locale, presenta un quadro inquietante che impatta anche sui servizi. Orbene, alla clausola sociale fa da contraltare l’obbligo di fornire almeno un servizio minimo decente».

E sulla spending review?

«La Corte può esserne il vero baluardo. Se non altro perché non ci sono alternative a tagliare gli sprechi se si vogliono implementare politiche espansive. Basta l’esempio della quota di acquisti di beni e servizi pubblici fatta al di fuori dalle procedure Consip. La Corte ha verificato che dei 47,4 miliardi di spesa complessiva, soltanto 9,6 miliardi sono passati per la centrale unica per gli acquisti. Si tratta, il dato è relativo al consuntivo 2017, di un misero 20%».

Una Corte con funzioni extralarge?

«Le funzioni già esistono. Negli ultimi anni il legislatore ha affidato nuovi compiti alla Corte vista la struttura capillare e le competenze. Dal 2012 ha il controllo attraverso il giudizio di parificazione del rendiconto generale delle Regioni, analogo a quanto già avveniva con quello dello Stato, la più rilevante forma di controllo. Ora riguarda tutte le Regioni italiane, enti territoriali o economici e società pubbliche. All’esito dell‘accertamento di irregolarità ci sono conseguenze giuridiche sulle amministrazioni, tra cui il blocco della spesa, l’avvio del dissesto guidato, il mutamento del regime di salvaguardia degli equilibri di bilancio, in virtù del quale il giudizio negativo della Corte sul Piano comporta il passaggio dal regime del piano di riequilibrio finanziario pluriennale a quello del dissesto».

Altro suo cavallo di battaglia sono le fondazioni bancarie, lei afferma siano pubbliche.

«Non è un problema di natura giuridica, il tema è che invece sicuramente i patrimoni delle Fondazioni derivano dalle banche pubbliche e quindi sono risorse pubbliche. Parliamo del vero fondo sovrano del Paese, è inammissibile che un sistema di tale portata che ha ancora influenza notevole sul sistema bancario, sia talora ostaggio di notabilati locali. Parliamo di risorse enormi distribuite ogni anno sui territori di appartenenza. Pur volendo ammettere la logica al supporto dei territori, tutto deve avvenire secondo regole di trasparenza, efficienza, legalità, non come avviene adesso. È la natura delle risorse che attribuisce la competenza ai giudici della Corte dei conti».

E allora?

«Investire i profitti delle banche in opere a sostegno delle comunità può sembrare a prima vista un progetto meritorio di moderno mecenate. Ma, tolto il velo dell’apparenza, la situazione è gestita senza alcuna trasparenza poichè qui non c’è un mecenate privato ma una istituzione che elargisce risorse pubbliche. Vi sono presidenti di Fondazioni che le gestiscono, di fatto ormai da anni, in modo da sopravvivere a se stessi. Peraltro l’obbligo di investire il 90% dei proventi nella regione di appartenenza privilegia il Nord rispetto al Sud del Paese. Ma se le sedi delle grandi Fondazioni sono concentrate al Nord, lo stesso non si può dire dei loro correntisti, o in generale della loro attività operativa. Io venderei le azioni delle banche dopo averle riportate al Mef per tagliare il debito pubblico per quasi 100 miliardi, ma queste sono scelte politiche».

A proposito di Mezzogiorno, è diventata famosa la sua prolusione all’inaugurazione dell’anno accademico.

«La questione è complessa. Il big push, la grande spinta alla crescita realizzata attraverso gli ingenti investimenti infrastrutturali e produttivi della Cassa del Mezzogiorno, non è arrivata al punto di consentire al Mezzogiorno di camminare sulle proprie gambe, perché non è stata completata, specie per il subentro degli inutili interventi a pioggia sul territorio meridionale. Nell’epoca del miracolo italiano il turn around economico è stato impressionante, gli investimenti industriali nel Mezzogiorno sono cresciuti di due volte e mezzo ed il tasso di crescita del Pil è stato costantemente superiore di due punti percentuali rispetto alla media del Paese. È necessario dunque un pieno ritorno dell’intervento pubblico, non di impianto statalista, ma basato su una armoniosa ed efficace combinazione di Stato e mercato, che ponga al centro degli obiettivi di strategia industriale la funzione dell’impresa, come soggetto storico e istituzione fondamentale dell’ordinamento e del mercato. Dunque l’intervento deve essere dello Stato centrale e con pochi chiari obiettivi, senza interventi a pioggia ed integrarsi con le Regioni che devono a loro volta organizzare “uffici unici” specializzati e centralizzati. Ciò anche in virtù dello strumento della cooperazione rafforzata fra le stesse come già prevede la Costituzione».

E quanto al suo ruolo di direttore scientifico di tante Università di successo?

«Il gap profondo esistente nelle Università italiane, rispetto a quelle degli altri Paesi a capitalismo avanzato, è la distanza tra l’eccellenza teorica nella ricerca e l’applicazione pratica, tra la torre d’avorio dell’Accademia e l’economia reale. Se si fa qualche nobile eccezione in campo medico, farmaceutico, biologico, tecnologico, l’Accademia è distante dai mercati, intesi in senso lato: le imprese, le professioni, i brevetti, le tecnologie, gli stakeholders. Ecco, quello che stiamo cercando di fare nella ricerca, dopo averlo fatto per la didattica, è l’applicazione, l’implementazione. Lo stesso modello formativo è un evento dinamico ed il piano multiuniversity è andato avanti e la Universitas Mercatorum ne è l’esempio più immediato. Un intero ateneo dedicato alle imprese nel senso più pieno. Formazione dello start up delle nuove imprese, specie del comparto della new economy, e dall’altro formazione a tutti i livelli dei lavoratori delle imprese, dagli amministratori, agli organi sociali, ai dirigenti, ai quadri, ai lavoratori, ai consulenti».

Tra le tante crisi d’impresa che ha curato c’è stato il Napoli, di cui è tifosissimo.

«Il caso Napoli del 2004 è una pietra miliare nel rapporto tra l’ordinamento sportivo e quello giuridico. La gestione di quella fase con la modifica delle norme federali e la vendita dell’azienda Napoli a De Laurentis da parte della procedura fallimentare, ha cambiato per sempre le regole del sistema. Si è trattato di un passaggio epocale dallo sport all’industria dello sport, con un valore tecnico e simbolico, prima che economico, formidabile. Sul piano personale e professionale è stata una esperienza esaltante ed irripetibile. Quanto al tifoso Fimmanò, parafrasando Javier Marías Franco, potrei dire che “l’ideologia, la religione, la moglie o il marito, il partito politico, il voto, le amicizie, le inimicizie, la casa, le auto, i gusti letterari, cinematografici o gastronomici, le abitudini, le passioni, gli orari, tutto è soggetto a cambiamento e anche più di uno. Le sole cose che non sono fungibili sono il Napoli ed i figli” ».

Ci perdoni la domanda impertinente: lei ha una tripla vita, immerso nelle Istituzioni, nella ricerca scientifica e poi “legal star” come la definiscono.

«L’appellativo di “legal star” non sempre mi è stato affibiato come un complimento, tuttavia io lo prendo come tale, perché è un po’ nella filosofia che ho sposato. Basta con la scienza chiusa nelle isole Galapagos, negli ecosistemi dove lucertoloni-scienziati vivono fuori dalla realtà, in un mondo autoreferenziale. Ho sempre interpretato la mia professione di professore universitario, di giurista prestato alle Istituzioni e avvocato, come un unicum dove il metodo scientifico mi ha consentito di sviluppare un approccio professionale, creativo ed innovativo. Il resto è frutto solo della passione, tanta passione. Come dice un bel verso del “Macbeth”: “il lavoro nel quale proviamo diletto è esso stesso rimedio alla fatica”. Ed io, mi creda, mi diverto tantissimo ».