Per il professor Nicola De Blasi non ci sono dubbi: il napoletano non è una lingua, ma un dialetto. (I’ te vurria parlà. Storia della lingua a Napoli e in Campania, con Patricia Bianchi e Rita Librandi). Ma il giudizio ignora troppi elementi. Non conta che a definirlo lingua sia l’Unesco, burocrazia dell’ONU, ma i fatti e le pagine di letteratura, sì. Nel 1442 il re aragonese Alfonso il Magnanimo riconosceva il napoletano come lingua ufficiale. 100 anni prima Boccaccio scriveva per metà in napoletano la lettera ad un amico. Esercizio letterario? Forse, ma di uno dei padri dell’italiano, consapevole di esprimersi in un’altra lingua. Di Giambattista Basile, non si parla, ma Lo cunto de li cunti, è l’archetipo dei racconti fiabeschi europei. Solo una lingua ha questa capacità espressiva. Al napoletano per gli usi pubblici pensava anche Ferdinando Galiani nel suo Del Dialetto napoletano (1779). Una “proposta isolata”? Vincenzo Cuoco, nel Saggio storico sulla rivoluzione del 1799, espone la stessa idea. Sant’Alfonso scrisse una grammatica dell’italiano per la predicazione dei Redentoristi. Ma per l’Inno natalizio più bello di sempre, Quanno nascette Ninno, scelse il napoletano. La tua lingua - si dice - è quella che usi quando hai paura e quando ami.