NAPOLI. Rifacendosi a quel genere di narrativa popolare che ha le sue radici nel romanzo scientifico, Eduardo Tartaglia, con la sua commedia “Quanto spazio tra di noi” vista al teatro Sannazaro, porta tra il pubblico un interessante prototipo di drammaturgia fantascientifica. Un testo quello dell'autore, attore e regista sangiorgese (già ben abituato con le sue stesure ad anticipare profeticamente i tempi) che strizzando l'occhio ad una narrazione visionaria, è persino capace di dissolvere la realtà con una fulminante successione di trovate addirittura tendenti al metafisico. E ciò che colpisce di più, pensando alla singolare messinscena, è la scelta di Tartaglia, circa il viaggio di salvezza che immagina a bordo di una nave stellare diretta verso nuovi mondi, di portare con sé nel futuro, tra evidenti riferimenti e chiari simbolismi, una rappresentativa trilogia di Eduardo De Filippo composta dalle commedie “Natale in casa Cupiello”; “Questi fantasmi” e “Napoli milionaria”. Tutti lavori che nel riportare alla luce il desiderio del maggiore dei De Filippo di rivolgersi ad un pubblico e a una realtà sempre più ampia, evidenziano una produzione drammaturgica sicuramente più attenta alla società, al presente, alla realtà storica  e alla coesistenza tra gli uomini di diverse nazionalità. Un orientamento estetico già da tempo seguito da Tartaglia senza mezze misure e che con “Quanto spazio tra di noi” dimostra ancor più la scelta di rivolgersi a motivi collegati alle problematiche della società di oggi con particolare riferimento a quella napoletana. E non è certo un caso se per la sua commedia di fantascienza l'autore porta alla ribalta le emblematiche battute di Luca e Concetta Cupiello che proprio sul tema del “risveglio”, indicano una specie di incitamento ad una realtà nuova. Invitando il pubblico alla riflessione sul sistema civile e culturale di una società moralmente martoriata e analizzando la resa al cospetto di un'auspicabile rinascita socioculturale, Tartaglia, porta in scena una vicenda, sia pure “fantastica” modello “Star Trek: Enterprise”, pronta per elevarsi al rango di denucia nei riguardi di un presente allo sbando. Trasformando il suo ironico e divertente lavoro in un altro tassello di un progetto teso a fare del teatro un mezzo per denunciare i drammi umani ed esistenziali, Tartaglia non perde l'occasione, stavolta, dopo aver parlato di guerra nel mondo,  terra dei veleni, utero in affitto e camorra, di soffermarsi sulla difficile questione degli immigrati. E ciò con una significativa trovata che vede il capovolgimento della situazione con gli umani costretti a scappare e a cercare ospitalità su altri pianeti per un'imminente fine della terra. Grazie a una comicissima Veronica Mazza nei panni di un'inconsapevole moglie che appena svegliatasi da un sonno criogenico deve vederserla  con il marito e le sue arbitrarie scelte e con lo stesso Eduardo Tartaglia nei panni di un filosofico ex giornalaio chiamato Cristoforo Scuffia, la storia porta al cospetto degli spettatori anche l'immutabilità dei problemi della città e di quella sua categoria di eterni illeciti individui. Ossia di quegli stessi illeggittimi esseri presenti nella rappresentazione, che pure dinanzi alla fine del mondo non esitano a perptetuare le loro ataviche malefatte perfino nello spazio. Con la compagnia completata dagli altri interpreti, Ernesto Mahieux, Ernesto Lama, Ivan Castiglione, Helen Tesfazghi e dalla giovanissima figlia d'arte Amalia Tartaglia, a divertire è una messinscena in grado di decodificare  il felice andamento di un “classico” pronto a diventare contemporaneo. O meglio, un'opera che sulle tracce del genere fantascientifico e nel nome di un novello Kubrick teatrale, evidenzia tutte le lacerazioni della nostra società raffigurando uno stimolo emotivo contro le ingiustizie e l'ipocrisia di un'umanità sempre più lontana dalla solidarietà e dall'amore per il prossimo.