Apprendisti stregoni e crisi della sinistra
Se risponde a verità il vecchio detto secondo cui il mattino si vede dal buongiorno, non possiamo non dire, invertendo i termini, che questa campagna elettorale, cominciata con largo anticipo e destinata a protrarsi per un tempo infinitamente lungo, s'annuncia come una delle più squallide della storia repubblicana. Si assiste a comportamenti che rivelano imprevedibili trasformazioni- non in positivo, purtroppo - della natura stessa, o di quella che credevamo essere la natura di molti personaggi, a conferma di quell'antico detto secondo cui "il diavolo è colui che si trasforma ". Tre casi ci sembra di poter citare a questo riguardo. Il primo è quello di Pierluigi Bersani. A differenza di quello del suo compagno di cordata Massimo D'Alema che ha concentrato la sua carriera politica nella contemplazione del proprio ego, il comportamento di Bersani non può non stupire. Bersani era, per sua stessa definizione, "l'uomo della ditta", impegnato a non rinnegare mai la propria appartenenza e a restare fedele al proprio partito, all'interno del quale avrebbe sempre e comunque, combattuto la propria battaglia. Ora, in vista di elezioni che potrebbero essere determinanti per l'assetto politico del paese almeno nei prossimi cinque anni, non soltanto concorre, in virtù di rancori personali, a indebolire notevolmente il suo vecchio partito (le elezioni regionali siciliane sono state illuminanti al riguardo), ma è giunto a ipotizzare una patetica alleanza con i cinquestelle di Beppe Grillo, vale a dire con la forza che più di ogni altra è ideologicamente in conflitto con la sua storia e con la tradizione politica alla quale è appartenuto per una vita. Il secondo personaggio al quale, in questo contesto, ci sembra di poter fare riferimento, è Romano Prodi, grande "guru" del centrosinistra, fondatore dell'Ulivo e due volte vincitore nello scontro con Silvio Berlusconi. Ebbene Prodi, al quale tutto il centro-Sinistra guarda come ad un oracolo, pur ipotizzando per l'Italia, un futuro tragico, ha fatto sapere, chiaro e tondo, di non avere alcuna intenzione di mettersi in gioco. Resta sotto la sua tenda a guardare quel che accade. Terzo "caso" - ne abbiamo già parlato su queste colonne - è quello del presidente del Senato Pietro Grasso che ha lasciato il suo partito, ufficialmente per esprimere la propria contrarietà alla nuova legge elettorale, ma in realtà per inseguire il sogno, che non ha alcuna possibilità di realizzarsi, di una presidenza del Consiglio alla quale spera di approdare con il sostegno di non si sa bene quale maggioranza. La verità che emerge da queste prese di distanza è piuttosto deprimente. Ci verrebbe da dire, squallida. Perché, al di là della loro non condivisione della linea politica del Pd e del loro dissenso (che sarebbe di per sé del tutto legittimo), dalle scelte di Matteo Renzi, quel che muove i personaggi ai quali abbiamo fatto cenno sembra essere un altro: il convincimento, cioè, che il Pd sia destinato a perdere (forse rovinosamente) il prossimo confronto elettorale. In tal caso, Renzi dovrà realisticamente tornarsene a casa e sulle macerie di quello che fu il partito capace di raggiungere oltre il quaranta per cento dei consensi, tutti questi "padri nobili " che oggi "si chiamano fuori", sperano di essere chiamati, come "salvatori della patria " alla guida della sinistra. Se così è, s'illudono. La loro sorte sarebbe quella degli apprendisti stregoni che andarono per bastonare e furono bastonati. Non si rendono conto che, con il loro atteggiamento potrebbero concorrere a portare al successo il movimento grillino e, in tal caso, ad entrare in crisi sarebbe non soltanto il Pd, ma l'intero sistema politico. E non si vede chi potrebbe garantire, in tal caso, la loro sopravvivenza politica.