Banco di Napoli: un addio o un nuovo “risorgimento”?
La “cultura” del sospetto non è il metodo migliore per capire momenti e vicende della nostra storia, umana e politica. Specie quando si tratta del Banco di Napoli giunto ormai alla vigilia della fusione, per “definitiva incorporazione”, da parte di Intesa Sanpaolo. Allora si affacciano le dubbiose parole di spoliazione, diabolici raggiri, macchinazioni. Forse proprio in conseguenza della fama e del prestigio acquisiti, nel tempo, dal “soggetto” in questione. Un avveduto assessore di Palazzo San Giacomo, Alberto Servidi, diventato poi Presidente della Regione Campania, non smetteva di sottolineare che tre cose, dell’ex Regno delle due Sicilie, continuavano a essere famose nel mondo: il Vesuvio, la canzone e il Banco di Napoli. *** Tempi d’oro e lira pesante. Il pensiero del cronista va ai primi decenni del secondo ‘900 quando, trovandosi all’estero, anche fuori dall’Europa, camminando per strade del tutto sconosciute si imbatteva in una insegna del Banco: grazie alla sua “presenza” tranquillità e sicurezza si potevano ritenere assicurate. Non ci si sentiva più soli e in caso di necessità si sapeva che “qualcuno” era pronto a garantire per lui. Quell’insegna campeggiava ben visibile nelle capitali e città più importanti. Il napoletano Istituto di via Toledo - ben quotato sul piano internazionale da Parigi a Bon, da Londra a Mosca - aveva perfino una banca tutta propria in Lussemburgo. *** Molti progenitori. Nel 1539 il Banco si fa strada tra i “monti di pietà”, testimoni di indicibili sofferenze sociali spinte oltre la sopravvivenza. Il microcredito, i prestiti di limitata entità (sede a Napoli nel decumano inferiore) aiutavano ad attendere, con un minimo di fiducia, il giorno successivo. Il Monte non infieriva e dava tempo (la recente apertura dell’Archivio storico ha reso visibili una incredibile quantità di grossi volumi con nomi, date e indicazione di oggetti quasi tutti fra i più sentimentalmente cari). In tempi a noi più vicini, il cardinale Corrado Ursi venuto a Napoli nel 1966 con la fama di Vescovo del Concilio Vaticano II, volendo bonificare i quartieri più colpiti dal carovita, attuò il riscatto dal Monte dei pegni di tutto ciò che, con la tristezza nel cuore, vi era stato depositato. *** Testimone di una lunga storia. Senza il Banco, Napoli e il Sud continentale, avrebbero mai potuto resistere alle “imperfette tempeste” dei tempi? La sua forza era tuttavia anche il principale “oggetto del desiderio” da parte di chi, politicamente parlando, aveva più fortuna. Ne fece volentieri esperienza Garibaldi che, come sottolinea una certa storiografia, ”rubò i soldi del Banco”. Un conto approssimativo dice che, fra denaro liquido e un po’ di lingotti d’oro, si portò via 12 milioni di ducati, più o meno 230 miliardi delle nostre vecchie lire. Su un foglietto che doveva valere come ricevuta, scrisse che si trattava di un prelievo per le spese di guerra, con l’impegno del nuovo Stato di restituire tutto il più presto possibile. Servita a ripianare l’ingente debito pubblico che il Piemonte aveva contratto, quella somma non è mai più tornata indietro. Una bella “spoliazione”. *** Percorso accidentato. Dall’unità d’Italia al 1926 (il fascismo stabilmente al potere) il Banco è istituto di emissione e batte moneta. Perde la qualifica quando entra nell’area del Diritto pubblico funzionando come sostegno a banche ed economia dei territori suoi per appartenenza geografica e storica. Per Napoli è il polmone più attivo, la struttura portante che aiuta a superare le crisi politiche ricorrenti, con la seconda guerra mondiale che molto più della prima devasta il Paese e in particolare il Sud. Ma nell’opera di ricostruzione morale e materiale il Banco è sempre in prima fila anche se deve riguardarsi soprattutto dall’invadente voracità della politica (la Dc nel Paese, i Gava a Napoli) *** Progressivo declino. Dopo il boom economico, crescono vertiginosamente sofferenze,operazioni sballate, crediti “facili” ai potenti di turno (lo scrittore Luigi Compagnone li definiva “i parenti di San Gennaro”). Un presidente coraggioso, Paolo Pagliazzi, denuncia un profondo rosso di bilancio. Da allora la svolta fra speranze di ripersa e paura del nuovo: la legge Amato che crea due soggetti invertendo i ruoli (tra Banconapoli e Fondazione sarà la figlia a governare la madre!). Dal tunnel si esce con la parola magica “privatizzazione”. Una vera gara di mercato? Ancora dubbi e ipotesi inquietanti. Il Banco viene venduto alla cordata Ina-Bnl per 61 miliardi. Ma è un patrimonio che vale molto di più. Infatti Intesa-Sanpaolo- Imi lo acquista pagando ben 6mila miliardi. Tutto alla luce del sole? Chi, col patrimonio del Banco, ha risolto problemi del tutto personali? Domande che ancora non hanno risposte. *** Fine di un’era. Rimesso in piedi come meglio si poteva, ora il Banco vive una nuova fase con il gruppo Intesa-Sanpaolo che lo “fonde” incorporandolo a pieno. I vertici del terzo gruppo d’Europa (Gian Maria Gros-Pietro e Carlo Messina) garantiscono autonomia, livelli occupazionali, marchio e logo storico. Ma diffusa è la preoccupazione per la difesa di correntisti e possessori di titoli, per il sostegno a imprese, enti e istituzioni, per una nuova fuga di cervelli. In sostanza: la raccolta del “nuovo Banco” resta dove avviene o prende la via del Nord? Daniele Marrana, presidente della Fondazione Banconapoli, non perde la calma: “Non siamo in presenza di un Gruppo colonizzatore”, afferma. Ma l’idea di una banca tutta e sola per il Sud resta un grande obiettivo.