Com’è brutta l’Italia del 25 aprile 2015
La nuova legge elettorale, il ricorso alla questione di fiducia da parte del governo, la spaccatura determinatasi nel Pd sono l’elemento centrale del dibattito politico in corso. Ma, riservandoci di intervenire su questi argomenti “a bocce ferme”, quando, cioè, le posizioni si saranno definitivamente chiarite, vogliamo fare un passo indietro e far riferimento a un evento che ci sembra meriti qualche riflessione a freddo, vale a dire alla recente celebrazione del settantesimo anniversario del 25 aprile 1945. Affinché il titolo di quest’articolo non tragga in inganno il lettore, mi corre l’obbligo di una premessa. Non ho alcuna intenzione di addentrarmi in una disquisizione storica sul 25 aprile. Sono convinto che spetti agli storici pronunciarsi sul significato e sul valore di quella data. Quel che da giornalista, chiamato ad osservare gli avvenimenti del presente, e non da storico, al quale compete valutare gli eventi del passato, vorrei tentare di fare, è soffermarmi sul modo in cui quell’evento è stato celebrato nel nostro paese settant’anni dopo, quale tipo di italiano queste celebrazioni hanno messo in mostra. Diciamolo senza infingimenti: il paese, così com’è apparso ai nostri occhi, non ci è piaciuto neppure un po’. Perché, al di là della retorica, della melassa e degli squilli di tromba, avremmo preferito che quest’anniversario, caduto, peraltro, in una fase non facile della nostra storia nazionale, fosse celebrato in maniera diversa: all’insegna di una grande, ritrovata unità, di un impegno comune: quello stesso impegno comune che, proprio settant’anni fa, consentì agli italiani di operare il miracolo di rimettere in piedi un paese che appariva letteralmente a pezzi, distrutto e prostrato dagli orrori di una guerra sbagliata. È accaduto il contrario. Si è scelto di celebrare i settant’anni della Liberazione rinnovando antichi rancori, riproponendo un’anacronistica divisione tra due Italie che non dovrebbe esistere più. Abbiamo molta stima di Sergio Mattarella, della sua specchiata onestà che ne fa, in tempi di diffuso malcostume, un esempio e un punto di riferimento, del suo essere un democratico autentico, a ventiquattro carati. Ma, proprio perché questi apprezzamenti sono il frutto di un reale convincimento e non di servilismo, sentiamo di poter dire che non ci è piaciuto ch’egli abbia ritenuto di celebrare il 25 aprile all’insegna di una divisione tra i morti di quei drammatici giorni. Morirono in tanti, da una parte e dall’altra, in quelle terribili giornate ed erano tutti ragazzi italiani. Classificando quei ragazzi in morti di serie A e di serie B, Mattarella è sembrato dimenticare due cose: l’antico monito secondo cui “oltre il rogo non vive ira nemica” e quella massima che fa parte dell’eredità morale di Giovanni XXIII che esortava a condannare l’errore, non l’errante. E vogliamo citare due tra i tanti episodi che potremmo considerare negativamente emblematici del modo in cui è stato celebrato questo settantesimo anniversario. Uno si è verificato a Roma, dove, dalla terrazza del Pincio, è stato innalzato uno striscione con l’immagine di Mussolini appeso a testa in giù e la scritta: “Festeggiamo così il 25 aprile”; l’altro a Milano dove insulti sono stati lanciati contro la “Brigata ebraica” che partecipava al corteo. Due brutte Italie: quella che si riconosce nello scempio di piazzale Loreto che Sandro Pertini bollò come una pagina vergognosa e quella della discriminazione antiebraica con la quale qualche idiota crede di esprimere solidarietà ai palestinesi e non si rende conto di danneggiarli. All’uno e all’altro evento la stampa straniera ha dato, a nostra vergogna, ampio risalto. Così questo anniversario, che doveva essere una festa di pace, di unità e di solidarietà, ha dato al mondo l’immagine di un paese rancoroso, diviso, lacerato, con una destra allo sbando che non sa quel che vuole e una sinistra che, come ha rimarcato uno dei suoi esponenti più lucidi, Luciano Violante, è ancora preda di una “torsione ideologica propria di chi, per debolezza, teme di perdere la propria identità parlando con l’avversario”; una sinistra che non capisce – citiamo ancora Violante – che “fare politica significa sforzarsi di capire le ragioni degli avversari, non guardarsi allo specchio”. C’è un ultimo aspetto di queste celebrazioni che non ci è piaciuto. Ed è il tentativo di voler piegare il significato e il valore del 25 aprile ad una gretta opportunità politica contingente, equiparando la Resistenza all’opera di quanti, oggi, si oppongono al governo che starebbe travisando la Costituzione. Una sesquipedale stupidaggine. A farla breve, se questo settantesimo anniversario doveva essere l’occasione per una sorta di “check up” sullo stato di salute del nostro paese, dobbiamo dire con tutta franchezza che l’esito della “ricognizione” non è stato dei migliori. Ci sono troppo odio, troppi rancori, troppa intolleranza: un’altra Italia rispetto a quella che sognavamo.