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Confesso: ho nostalgia della Prima Repubblica

Opinionista: 

Sono pronto a confessare e a salire sul banco degli imputati: sono un nostalgico della Prima Repubblica, colpa grave, difficile da perdonare. Ma ad accendere in me il rimpianto per anni che sono stati ingenerosamente consegnati dai più al pubblico disprezzo, ha concorso, direi in modo determinante la reprimenda rivolta da Giorgio Napolitano agli attuali parlamentari, rei di essersi dati una settimana cortissima che li impegna per non più di due giorni e mezzo alla settimana e fa sì che a ciascuno di loro si addica quell’antica canzone romana che recita: “Voglia de lavorà, sarteme addosso”. L’ex presidente della Repubblica (che fu presidente della Camera tra il 1992 e il 1994) ha usato, nei confronti dei suoi colleghi, parole che pesano come pietre: «È un gran fattore di decadenza istituzionale - ha detto – essere costretti a riunirsi negli spiccioli di tempo». E ha aggiunto che quaranta ore di lavoro settimanale sono troppo poche. E qui ha sbagliato. Altro che quaranta ore. Statistiche alla mano risulta che nel 2015 le aule di Montecitorio e di Palazzo Madama hanno lavorato rispettivamente 20,71 e 12,59 ore a settimana. Cifre deprimenti. Del resto, per chi voglia aver contezza della situazione è sufficiente fare una passeggiata (una “vasca”, nel gergo dei cronisti parlamentari) nel transatlantico di Montecitorio per rendersi conto del deserto di quello che fu un tempo il grande “corridoio dei passi perduti”, affollato da capannelli di deputati e giornalisti dove s’intrecciavano appassionate discussioni e, a volte, si concludevano anche accordi politici di rilevante importanza. Dal lunedì al venerdì Montecitorio era affollato, era davvero il centro della vita politica. E proprio per questo, Sandro Pertini, all’epoca presidente della Camera, giunse a proporre che tutto il “palazzo della politica”, comprese, cioè, le stesse direzioni dei partiti, si trasferisse a Montecitorio. Non se ne fece nulla, ma la Camera – e anche il Senato, sia pure in misura minore – viveva una stagione di grande vivacità. Oggi il “transatlantico” è quasi sempre desolatamente vuoto; vi si aggirano rari deputati, attratti più dai servizi della barbieria, del tabaccaio e dell’ufficio postale che dal confronto politico con i colleghi e sparuti gruppetti di cronisti per i quali non è certo più la fonte di appetibili notizie. A determinare questa sorta di disaffezione nei confronti del Parlamento concorrono diversi elementi. Ne citeremo due, tra i molti. È sgradevole doverlo rimarcare, ma è fuor di dubbio che la qualità dei parlamentari sia oggi meno elevata che in passato. L’abolizione delle preferenze, che praticamente fa dei deputati e dei senatori dei “designati” delle segreterie, ha trasformato gli eletti in burocrati il cui contributo “creativo” alla elaborazione politica è inevitabilmente limitato. All’origine di questa mancanza di partecipazione – ecco il secondo motivo della disaffezione - contribuisce in parte considerevole lo svuotamento dei poteri del Parlamento inequivocabilmente attestato dal sempre più frequente ricorso al voto di fiducia da parte del governo; uno strumento al quale un tempo – secondo una corretta interpretazione – si faceva ricorso in via d’eccezione e che oggi, purtroppo, sembra essere divenuto prassi costante. Si delineano, così, i presupposti di una vera e propria mutazione genetica che elimina il carattere parlamentare della nostra Repubblica senza, peraltro, che si intraveda un nuovo modello di democrazia. Insomma, la disaffezione di deputati e senatori per il loro lavoro, simbolo di una decadenza dell’istituto parlamentare, appare uno dei connotati caratteristici di questa Seconda Repubblica, pervasa da una condizione di totale confusione che induce a far ricorso alla vecchia formula secondo cui “si stava meglio quando si stava peggio”. È vero, la Prima Repubblica affondò devastata dalla malapianta di Tangentopoli (che, peraltro, non è stata neppure in minima parte estirpata). Ma stiamo attenti ad emettere sentenze definitive perché la Prima Repubblica non fu soltanto Tangentopoli. Fu molte altre cose. E, appellandomi a quel vecchio detto del “poco se mi considero, molto se mi confronto”, confrontando la Seconda con la Prima Repubblica credo di aver diritto alle attenuanti, dichiarandomi un nostalgico di quest’ultima.