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Via della Seta, ora Meloni ci liberi dal cappio cinese

Opinionista: 

Coraggio Giorgia. Se proprio dobbiamo rispondere signorsì alle richieste americane di un sempre maggiore coinvolgimento nel conflitto in Ucraina, allora facciamolo anche sull’unica cosa per la quale vale davvero la pena allinearsi alle sollecitazioni Usa: l’archiviazione definitiva della sciagurata adesione dell’Italia alla Via della Seta cinese. Sottoscritto nel marzo 2019 dal Governo M5S-Lega, abbiamo il poco invidiabile primato di essere gli unici del G7 ad aver firmato un memorandum del genere con il regime capital-comunista di Pechino. Da allora molta acqua è passata sotto i ponti. Soprattutto, è passato molto sangue. Alla luce dei gravi danni economici, finanziari e ambientali che la Via della Seta ha provocato in gran parte delle Nazioni coinvolte, il Governo italiano dovrebbe considerare una questione di sicurezza nazionale non rinnovare quell’accordo. Con l’aggressione di Mosca all’Ucraina e l’effetto domino degli avvenimenti che ne sono seguiti, la Russia è divenuta uno Stato vassallo della Cina, che ha acquisito un ruolo assolutamente dominante. L’imperialismo russo e quello di Pechino sono ormai uniti nel marciare insieme e unificare le minacce a tutto vantaggio del Dragone rosso, che è il soggetto che più ha guadagnato finora del rivolgimento geopolitico apertosi il 24 febbraio 2022. La Via della Seta firmata dall’Italia non si sottrae a questa logica. La dottrina strategica cinese mette in rima scopi commerciali e militari. Bisogna ficcarsi bene in testa che quando Xi Jinping apre un porto a Gibuti o lo acquista al Pireo, persegue sì fini economici, ma anche immediatamente militari. Le linee di comunicazione divengono zone d’influenza politica, strategica, militare e di sicurezza cinese. Attenzione a questa identità di fini. La penetrazione di Pechino in Italia è evidente in molti campi, non ultimo il poco indagato spionaggio economico mirato all’aggressiva sottrazione di proprietà intellettuali, di patrimoni imprenditoriali, ricerche scientifiche e conoscenze tanto nel settore pubblico quanto in quello privato. L’opzione cinese verso lo strumento finanziario come leva di potenza, sfida sovrana proiettata su scala globale, e non come semplice mezzo di crescita e benessere interni, deve preoccupare tutti. È la Cina non altri l’avversario strategico dell’Occidente nel XXI secolo. Ed è per questa ragione che è stato clamoroso e madornale l’errore americano di regalare a Xi Jinping l’immensa prateria di materie prime russe a buon mercato. Tutto “carburante” a basso costo che Pechino sta già utilizzando nell’unico modo che conosce: propellente per il proprio espansionismo geoeconomico, usando le relazioni commerciali con l’Occidente in primis con Roma grazie allo sciagurato memorandum, ma anche con Germania e Francia come mezzo per incuneare elementi di contraddizione e divisione nel campo avversario. La colpevole, tardiva preoccupazione con cui sembriamo esserci accorti della minaccia rossa è un passo avanti. Ma non basta. Ancora troppa timidezza, troppi timori caratterizzano la risposta alla sfida. Finora l’unica dichiarazione esplicita rilasciata dalla Meloni in merito alla possibile scelta di non rinnovare il memorandum è stata: «Il dibattito è aperto». Per il resto circolano solo ipotesi e indiscrezioni. Il predecessore della leader di Fdi a Palazzo Chigi, Mario Draghi, aveva bloccato e impedito l’acquisizione d’imprese italiane da parte di società cinesi, sposando la valutazione del regime come «concorrente economico e rivale sistemico». Per carità, quando si tratta di cose che investono delicate diplomazie commerciali e non solo è naturale che ci si muova con passo felpato e grande cautela. Ma la ri-globalizzazione bipolare in atto, intesa come formazione di due aree, una sinocentrica e l’altra americanocentrica, restringe gli spazi di manovra per tutti. Anche per l’Italia. Occorre fare la scelta giusta.