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Per destra e sinistra stesso bersaglio: Conte

Opinionista: 

Si fanno sempre più insistenti, nei corridoi del Palazzo, le voci secondo cui, alla ripresa di settembre, Giuseppe Conte dovrà lasciare ad altri la poltrona di presidente del Consiglio. Potrebbe restare al suo posto, forse, soltanto per gestire eventuali elezioni anticipate che potrebbero rivelarsi inevitabili se Sergio Mattarella, confermando le sue affermazioni di qualche tempo fa, considerasse inevitabile, in caso di crisi, l’anticipato scioglimento delle Camere. La decisione di "rottamare" Conte proprio nel momento in cui i sondaggi indicano in lui l’uomo politico al quale l’opinione pubblica attribuisce il più elevato numero di consensi, non può non apparire come una contraddizione, la manifestazione di una sorta di alienazione delle forze politiche che pure, ad ogni pie’ sospinto, rivendicano il loro ruolo di interpreti della volontà popolare. E se può essere comprensibile che a spingere per la "cacciata" dell’attuale capo dell’esecutivo siano Matteo Salvini e Giorgia Meloni, assai meno chiare sono le motivazioni che inducono i partiti della maggioranza a contestarlo. Se, come abbiamo detto, la caduta di Conte comporterà lo scioglimento delle Camere, si può capire che i leader della Lega e di Fratelli d’Italia puntino a favorire l’apertura della crisi. Ma Pd, Cinquestelle e Italia viva quali obiettivi perseguono mandando a casa l’attuale presidente del Consiglio? A rendere probabile l’ipotesi che a settembre Conte debba uscire di scena contribuiscono, altri elementi pnon trascurabili Il primo è che pensare che nel nostro paese un governo e un presidente del Consiglio possano restare in carica per l’intera legislatura è del tutto illusorio come induce a ritenere il fatto che dal 1946 ad oggi, si sono succeduti ben sessantasei governi. È naturale ritenere, quindi, che la fine del Conte bis obbedirebbe ad una dinamica consueta. Da questo punto di vista le voci di una breve durata del governo non possono sorprendere. Ma stupisce il comportamento dei partiti che dovrebbero far di tutto per evitare il ricorso alle urne dal quale dovrebbe con molta probabilità scaturire la sconfitta della coalizione della quale fanno parte. Tuttavia, rispetto a queste considerazioni sembra prevalere una mal repressa ostilità nei confronti di colui che ritengono si sia insediato "abusivamente" a Palazzo Chigi. La sua non espressa appartenenza ad uno dei partiti che lo hanno sostenuto proprio in virtù della sua neutralità rischia ora di trasformarsi da "arma vincente" in un elemento di debolezza. I cinquestelle che pure, a suo tempo, ne avevano proposto la nomina non gradiscono la sua "indipendenza" che considerano eccessiva; il Pd, considerandosi, di fatto, il primo partito dell’alleanza, ne rivendica la guida per un proprio esponente. Insomma, ancora una volta, secondo un copione che torna a ripetersi con una costanza degna di miglior causa, a prevalere, in un’ottica obiettivamente miope, sono gli interessi di parte. E ci viene alla mente l’antica metafora orientale che narra di come, quando il saggio indica la luna, lo stolto, anziché la luna, guarda il dito.