Accessibilità:
-A A +A
Print Friendly, PDF & Email

Discriminazione ai danni delle Università del Sud

Opinionista: 

Di rado scrivo d'Università. Forse perché ne so troppo, non chissà per quale ragione, ma perché da troppo tempo, circa un trentennio, ci ho miracolosamente convissuto, insegnandoci. Convissuto, non dico per crear distanza, ma perché distanza, obiettivamente, c'è sempre stata tra me e l'istituzione alla quale ho cercato di dare quel che ho potuto, per carità non da anima totalmente candida. È in atto, in questi mesi, una nuova retorica: nuova si fa per dire, perché in realtà è assai vecchia. Quella che racconta di discriminazione ai danni delle Università del Mezzogiorno. Di certo, la cosa è sostenibile. Non più, però, di quanto non lo sia la generale discriminazione ai danni del Mezzogiorno. Che è storia – quest'ultima – risalente e direi scontata, quant'è scontato che un territorio assoggettato da una falsa unificazione e da una proditoria conquista (non demeritata, per vero) subisca le conseguenze, storiche appunto, dello sconfitto. È banale che chi ha le ragioni della forza dalla sua, le faccia valere nei modi in cui può: non intelligente, ma banale. Inutile farsi delle illusioni. Detto questo, che è appunto scontato, le retoriche vittimistiche periodicamente animate da parte di accademici meridionali, Rettori in prima linea, per denunciare discriminazioni ai danni del reietto Sud che subirebbe le angherie di criteri valutativi stabiliti dal Nord, quelle retoriche devo dire suonano assai stonate. Costruire un'Università o, meglio, preservare un livello di qualità nelle istituzioni che dovrebbero formare – come insegnava un grande e vero meridionale, Francesco De Sanctis – il cittadino italiano, insieme all'intera catena dell'istruzione pubblica, significa compiere singoli atti di quotidiana responsabilità. Se davvero si credesse nell'altezza del compito al quale sono chiamate così alte istituzioni educative, anzitutto non se ne sarebbe dovuto moltiplicare a dismisura il numero, producendosene una per ciascun quartiere cittadino o, il che produce analoghi disastri, una o più d'una per ciascuna regione in cui si suddivide il nostro mal nato Paese. Formare un professore universitario significa – avrebbe dovuto significare – preservare rigorose palestre intellettuali: quelle che, sull'insegnamento di Platone, si sarebbero poi chiamate Accademie, nelle quali allevare ristretti intelletti vocati alla ricerca ed elevarli – allevarli ed elevarli, un percorso dimenticato – alla cattedra universitaria. Un luogo simbolico, la cattedra, dal quale, in sinergico processo, la ricerca e l'insegnamento – un insegnamento che sarebbe dovuto scaturire dagli interessi e dalle conoscenze direttamente prodotte dal quotidiano lavorio dello scienziato – la ricerca e l'insegnamento avrebbero dovuto trasmettere alle generazioni in formazione, ancor prima che conoscenze, il gusto della conoscenza e l'attitudine a porsi criticamente dinanzi ai problemi complessi ed infiniti che circondano l'uomo nel corso della sua esistenza. Ed invece, grazie ad un avvitamento diabolico le cui ragioni è qui impossibile esporre, in luogo della conoscenza, l'Università s'è avviata a ricercare autentiche scemenze. Da ultimo, scimmiottando metodi di valutazione a noi totalmente estranei – perché basati su criteri quantitativi ai quali non può passarsi dall'oggi al domani senza gravi deviazioni – abbiamo ingigantito una macchina burocratica che, come ogni macchina burocratica, serve a ben poco sul piano della misurazione scientifica e dell'innovazione nei saperi. Ma non solo, perché qui al Sud, ci abbiamo da tempo aggiunto molto di nostro. Personalismi e familismi la fanno da criterio selettivo. Quelle stesse persone che su pagine di giornali e mezzi d'informazione non mancano di sbracciarsi nel denunciare le discriminazioni subite dal povero Mezzogiorno, inanellano quotidiani favoritismi nelle corone di successi che li hanno portati a raggiungere i loro vertici istituzionali. Capisco d'esprimermi in modo esoterico, ma talora lo impone la legge.