Gli schieramenti politici sulla nomina di Gratteri
Dopo appena sedici mesi d’attesa, è stato nominato il nuovo Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Napoli, distretto nel quale manca da tempo anche il Presidente della Corte d’appello e di recente s’è pensionato il Procuratore Generale presso la medesima. La Procura della Repubblica napoletana è quella più nutrita di magistrati in Italia e tra gli uffici inquirenti chiamati ad affrontare i più gravi problemi nell’amministrazione della giustizia penale, in considerazione del territorio vasto e dell’altissimo tasso di criminalità. La scelta è avvenuta su chiara base di schieramenti politici: come di consueto quando si tratti di selezionare candidati per cariche che concentrano l’ambìto potere dei grandi uffici, quelli dove si decide l’esercizio dell’azione penale – e dunque si decide verso chi debba indirizzarsi il potere punitivo dello Stato. Nella sostanza: da una parte i membri laici di designazione dei partiti attualmente in maggioranza nel Parlamento, affiancati dai componenti riferibili alla corrente togata di centro destra; dall’altra i togati della sinistra ed il componente laico riferibile alla medesima area politica. In un’intervista concessa per il giorno immediatamente successivo al voto dal Corriere della sera, il vicepresidente in carica del Consiglio Superiore della Magistratura s’è cimentato nell’amena tesi che no, non è vero siano gli schieramenti a dettare le regole della scelta dei magistrati in seno all’organo di autogoverno. A riprova ha indicato un numero: che cioè la massima parte delle votazioni in Csm avviene all’unanimità. La debolezza intrinseca dell’argomento è però palese: se la politica non fosse onnipresente in quel singolare parlamentino, difficilmente potrebbe far timidamente capolino di tanto in tanto, come avvenuto per la nomina del Procuratore napoletano o, a luglio, per quello di Firenze, dove si sono riprodotti analoghi schieramenti ed è stato possibile superare la divaricazione determinatasi in ragione d’alcune astensioni e d’un paio di voti liberi, solo grazie al voto del Vicepresidente, che prevale in caso di parità. Colà la politica o c’è sempre o non c’è; che appaia di tanto in tanto, è solo ragione di visibilità: e, guarda caso, appare sistematicamente nel caso di nomine appena più ambite, mentre per quelle routinarie, com’è ovvio in consimili realtà, gli accordi non lasciano tracce esteriori, ma scorrono al riparo dell’ordinarietà, nel quotidiano esercizio del potere che non può di certo guerreggiare su tutto. Del resto, se per scegliere un Procuratore è stata necessaria una riflessione d’oltre un anno, questa abnormità – che però per il Csm tende all’ordinarietà – è sintomo, così si definisce nel diritto amministrativo il fenomeno, di sviamento di potere: perché vuol dire che quanto ha costituito oggetto di riflessione – meglio, di negoziazione – non è stata la qualità dei concorrenti, per valutar la quale una tale esorbitanza di tempo non si giustificherebbe, ma tutta un’altra serie d’elementi, la cui consistenza e composizione si conosce da sempre, ed è stata poi anche debitamente documentata dalle cronache del cosiddetto ‘caso Palamara’. Insomma, può dirsi che le pratiche interne alla cittadella giudiziaria non siano state più di tanto impensierite dell’esperienza recata dai racconti del radiato ex Sostituto romano e degli altri sentiti in proposito. Di questo, per vero, si era avuta sufficiente contezza, già all’indomani dell’elezione del nuovo Consiglio superiore: basti dire che un solo consigliere togato, il dr. Mirenda, è stato eletto senza l’espresso appoggio d’una corrente, mentre tutti gli altri sono univocamente targati con l’una o l’altra sigla in cui si dislocano i giudici all’interno dell’Associazione nazionale magistrati. Diversamente, del resto, non avrebbe potuto essere, dato il meccanismo squisitamente elettorale che presiede alla composizione del Csm e considerata la forte politicizzazione della burocrazia giudiziaria italiana, consolidatasi grazie ad oltre un sessantennio d’interminabili lotte e manovre correntizie. Ma tant’è, nulla in Italia riesce a modificarsi seriamente, a ragione dell’atavica assenza dello Stato: ogni corporazione è in condizione d’esprimere liberamente i propri interessi, senza che un arbitro superiore possa regolari e delimitarli: cosicché obiettivi singolari, cetuali, di cordata o di corpo sono sempre lì a prevalere sui valori della pubblica funzione: e tutto va a rotoli, anzitutto l’etica pubblica. Le alterne vicende dell’aspirazione del Guardasigilli in carica d’incidere su alcuni dei nodi gordiani dell’assetto giudiziario – prima d’ogn’altro, la separazione tra inquirenti e giudicanti – testimoniano senza equivoci quanto profondamente radicato sia il potere dell’ordine giudiziario e quanto debole sia quello politico-parlamentare rispetto ad esso. È storia vecchia. Nuovo è invece il Procuratore di Napoli. Sarà l’uomo adatto a dare una svolta significativa alla preservazione dell’ordine pubblico ed al ristabilimento della legalità? La domanda – nel suo ripetere stereotipato espressioni da tempo usurate – è piena di disincantata ironia. Il fatto che essa riecheggi un ordine di parole mille volte ascoltate e ripetute, dimostra da solo che è ormai vuota retorica, non designa un interrogativo reale, la risposta è già nel suo ripetersi stancamente. Il nuovo Procuratore potrà fare poco più o poco meno degli altri, cioè quasi nulla, perché la situazione è a tal punto degradata, che l’azione giudiziaria, con i suoi tempi, le sue forme aggravate, i mezzi risibili sui quali può contare rispetto alla mole degli interventi che sarebbe necessario attuare, è del tutto inane. Certo, il Procuratore Gratteri ha, se mal non l’ho compreso, una considerazione alquanto ottimistica dei mezzi dell’investigatore: indimenticabili le sue parole sull’aspirazione a rivoltar la Calabria come un calzino. La Calabria è lì, con le sue strutture economico-criminali, e lui ora è qui, da lungi potrà forse osservarla meglio e valutare se quella gloriosa rivoluzione abbia avuto davvero successo.