Ho visto la Grande bestia sconfitta dall’amore
All’improvviso il lamento. Non ti puoi sbagliare. Come un lugubre ululato, attraversa il lungo corridoio verde che porta alle stanze dei degenti. È il segnale: la Grande bestia della sofferenza non dorme mai. Ha colpito di nuovo. Suonare il campanello è l'unica cosa che puoi fare per provare a difenderti. La richiesta d’aiuto insegue il lamento lungo lo stesso corridoio, nel tentativo di agguantarlo e zittirlo. Il compito è affidato alla pattuglia di turno degli infermieri. È notte fonda. L’ora preferita dalla Grande bestia per entrare in azione e mostrare tutto il suo potere. Invisibile, si muove furtiva e sadica, solleticando sofferenze e diffondendo dolore. È allora che dall’altro capo del corridoio si muove il carrello. L’infermiere risale l’allarme del campanello fino ad individuare il punto esatto dove la Grande bestia ha colpito. Come un moderno alchimista, si muove tra siringhe, flebo e medicine. Ma spesso la scienza da sola non basta. Per domare la Grande bestia occorre la parola. Una parola di conforto, di rassicurazione, d’incoraggiamento. Può quindi accadere che un po’ d’umanità riesca a fare più di qualsiasi intruglio di molecole. Allora pian piano la sofferenza si fa più sopportabile. Fino a quando la Grande bestia, finalmente sconfitta, è costretta al ritiro. Almeno fino al prossimo assalto. Sono le 3. Un’altra notte è iniziata al reparto di Ortopedia 2 dell’ospedale Cardarelli. E con essa l’eterna lotta tra la pena del corpo e chi cerca di renderla più tollerabile. A fare la conta di vincitori e vinti penseranno i medici l’indomani mattina. Ma ora no. Ora è notte. Ed è adesso che si combatte la battaglia più dura.
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Caro direttore, da vecchio redattore di questo meraviglioso miracolo quotidiano chiamato “Roma”, mi vedo costretto a chiederVi spazio per scrivere di ciò che mai ho scritto in tanti anni di mestiere: un fatto personale. Niente ipocrisie: come nella lingua parlata, anche in quella scritta userò il Voi, antico simbolo di rispetto e stima, purtroppo oggi sostituito da un tu spesso volgare e irrispettoso di ruoli ed esperienze. Voi sapete che non mi sono mai rivolto ai lettori in prima persona, considerando il vezzo una sgrammaticatura giornalistica. Per una volta, però, sono costretto a fare un’eccezione.
La ragione è che ci sono fatti della vita che quando bussano alla porta trasformano casi personali in esperienze collettive; un accidente individuale in una questione condivisa da una grande comunità di persone. Per quel che mi riguarda, quel fatto si è rivelato in una banale caduta che mi ha provocato una grave frattura al polso sinistro. Ecco. La realtà, imprevedibile e imprevista, mi ha rapito catapultandomi - nel breve volgere di un trasporto notturno in ambulanza - nella realtà dei sofferenti. Sono stato costretto a un lungo ricovero all’ospedale Cardarelli - splendido lascito del fascismo - per poi essere operato da un medico di cui ignoravo finanche il nome, che ha battagliato per lunghe ore in sala operatoria al fine di garantire che l’intervento chirurgico potesse riuscire al meglio tra molte difficoltà e sul filo di una grandissima tensione nell’equipe. Un medico che per settimane ho cercato invano: mi è stata sottratta anche la possibilità di dirgli grazie.
Io ho visto. Potrei raccontare molte delle cose che non funzionano come dovrebbero. Ho assistito - personalmente e assieme a molti altri - a singoli episodi che non fanno onore a chi ha prestato il giuramento d’Ippocrate. Ho visto casi degradanti; ho visto l’arroganza dei deboli che si sentono forti con gli inermi; la disorganizzazione; la superficialità sprezzante di alcuni marchesi del Grillo che “io so’ io e voi nun siete un c...”. Singoli fatti e circostanze che rischiano di macchiare la grande professionalità di tantissimi medici e infermieri che svolgono con onore e dignità il loro dovere, facendolo fino in fondo. A volte spingendosi anche oltre. Ho conosciuto i volti di questi ultimi, ho ascoltato le loro voci, ho assistito a prove di grande professionalità e umanità nel momento più difficile per un uomo: quello del bisogno. È per questo, caro direttore, che - nonostante tutto - vorrei qui parlare di ciò che funziona piuttosto che di ciò che non funziona.
Ho personalmente assistito ad incredibili episodi di solidarietà, slanci di umanità tra persone mai conosciutesi prima, unite da un comune destino: aver dovuto aprire per forza la porta alla realtà che bussava con la prepotenza di chi sa che non potrai sottrarti ai suoi voleri. Un infortunio, una distrazione, un episodio casuale e… zac! ti ritrovi su una barella al Pronto soccorso per iniziare una lunga trafila che ti farà conoscere la Grande bestia della sofferenza. Stanze e corridoi trasformati in una livella alla maniera del grande Totò, dove non esistono ricchi e poveri, istruiti e ignoranti, dirigenti di banca e operai, lavoratori e disoccupati, ma solo ammalati uniti da un comune destino: quello del dolore che raramente finisce in prima pagina. Parcheggiato insieme a tanti altri nel reparto di Ortopedia 2 del Cardarelli, ho potuto conoscere infermieri e medici di grande valore umano e professionale. La sanità che racconto è una sanità che si ostina a funzionare, nonostante esistano figure apicali non sempre all’altezza di molti degli uomini che dovrebbero gestire. Pochi e male armati, in mezzo a mille difficoltà organizzative e tra tantissimi ostacoli di ordine materiale, si muovono alcune donne e alcuni uomini che combattono per alleviare i dolori del fisico e della mente che la Grande bestia della sofferenza si diverte crudelmente a risvegliare di continuo. Al contrario di altri. Mi piacerebbe fare i loro nomi e ringraziarli uno per uno. Ma verrei meno al vero scopo di queste righe: smuovere le coscienze degli altri. Dei rassegnati; di quelli che “così fan tutti”; di chi si ostina a considerare i pazienti dei numeri; di coloro che sono diventati parte di un ingranaggio infernale che - ne sono certo - essi stessi considerano tale e rifiutano nel profondo del loro cuore. Da giornalista credo nella potenza della parola. Credo che il suono leggero che la scrittura rimbomba nella mente e nel cuore di ognuno di noi possa essere, in certe circostanze, motore di piccoli cambiamenti ed esami di coscienza dagli esiti imprevedibili. Ecco, il mio augurio è che queste righe possano contribuire ad aggiungere sempre nuovi nomi meritevoli dei ringraziamenti degli ammalati. Se uno solo se ne aggiungerà - magari in un futuro lontano - queste righe avranno avuto un senso. Caro direttore, grazie per avermi concesso lo spazio per esprimere sentimenti, prima ancora che raccontare fatti. Per una volta e per una buona causa. Con l’affetto e la stima di sempre.