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I politici studino il rapporto Istat per capire cosa fare

Opinionista: 

Una buona regola, per chi voglia riflettere sulle trasformazioni in atto del mondo in cui viviamo per poi esprimere opinioni e avanzare interpretazioni, è di tener conto di quegli elementi che possono costituire un saldo e oggettivo punto di riferimento. Se si vuole, ad esempio, dare fondamento (e trovare una verifica) ad una propria visione della realtà politica, economica e sociale del nostro paese, bisogna partire dalla conoscenza dei dati di fatto, così come vengono rappresentati da istituti e centri di ricerca. Numeri, statistiche, indagini, analisi costituiscono (o dovrebbero costituire) un indispensabile supporto non solo per gli storici, i sociologi, i politologi, gli economisti, ma anche e soprattutto per i politici e gli opinionisti, dal momento che talvolta la fredda oggettività della statistica contraddice e sovverte la fin troppo calorosa rappresentazione propagandistica della politica. Muovo da questa premessa per esprimere qualche riflessione sul “Rapporto Istat 2016” che quest’anno ruota intorno al problema delle generazioni, preso correttamente come il perno a partire dal quale diventa possibile e meno esposto alle forzature interpretative della politica il ragionamento sulle trasformazioni della nostra società. Penso innanzitutto al quadro che dai dati statistici emerge in riferimento alla generazione più giovane: un quadro pieno di contraddizioni, giacché all’aumento di laureati rispetto ai decenni passati fa da contraddittorio pendant l’aumento della disoccupazione giovanile e del precariato; così a un consistente numero di giovani che vanno all’estero corrisponde – anche a causa della crisi - un incremento dei figli che restano a casa dei genitori. È interessante seguire un pezzo importante della nostra storia attraverso un’analisi comparata che l’Istat propone, mettendo a confronto i dati di quattro generazioni: quella del primo dopoguerra, del fascismo ormai al potere e della guerra di liberazione (1926); quella del secondo dopoguerra, della ricostruzione e del boom economico, ma anche del ‘68 (1952); quella della transizione di millennio, dell’illusione che tutto si potesse avere e conquistare e della presa d’atto di una realtà cosmopolitica e interconnessa a cui però corrisponde l’aumento delle diseguaglianze, la crescita dell’insicurezza dinanzi al terrorismo, la difficoltà a trovare lavoro (1976); infine la generazione degli ultimi nati (2016), di quelli che nascono già con il tablet in mano e che moriranno a dir poco a 100 anni. Messi a confronto, i dati ci dicono che l’aspettativa di vita durante gli ultimi 90 anni è aumentata da 52 a 85 per le donne e da 49,3 a 80,1 per gli uomini, che la mortalità infantile è passata da 126 ogni mille ai 3 di oggi, che le casalinghe sono passate dal 62% al 18%. Vi è però il dato preoccupante della decrescita demografica che vede calare dalla media di 3,5 figli per donna del 1926 all’1,3 dell’oggi. Dunque un chiaroscuro che si complica ancor di più guardando ai dati economici. Il documento Istat ci dice che l’uscita dalla recessione è lenta, tanto lenta da poter perdere l’aggancio al treno di quelle realtà che procedono più veloci dell’Italia e ci dice anche che la disuguaglianza aumenta a vista d’occhio, con una distribuzione meno democratica del reddito, che il nostro sistema di protezione sociale, sottoposto negli ultimi tempi a tagli draconiani, è tra i meno efficaci nel contesto delle grandi nazioni europee. Servono – e lo dice l’Istituto Centrale di Statistica e non la politica – maggiore occupazione, eliminazione del precariato, più servizi sociali, più laureati, radicale diminuzione delle diseguaglianze sociali. Chissà se i nostri governanti tra un banchetto e l’altro per i referendum e nelle pause della campagna elettorale avranno tempo di sfogliare il rapporto Istat. PS sono 299 pagine, ma si trovano buone sintesi via internet.