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Il desolante panorama della giustizia italiana

Opinionista: 

In questi ultimi giorni, a seguito del deposito degli atti nell’indagine perugina a carico di Luca Palamara, ex Presidente dell’Associazione nazionale Magistrati, nonché già componente del Consiglio Superiore della Magistratura, sostituto Procuratore della Repubblica a Roma e, soprattutto, Gran Cerimoniere della magistratura italiana, sta spuntando fuori un quadro quant’altri mai desolante del mondo giudiziario nazionale. Se il Paese avesse capacità di reazione – se non fosse invece moralmente stremato da decenni di tolleranza su tutto e tutti – si sarebbe aperta sull’onda di quello che è un autentico scandalo una seria riflessione, non sugli specifici episodi e sui gossip di pruriginoso interesse: ma su quanto queste specifiche vicende ci dicono dell’ambiente che è andato costruendosi nella magistratura, finendo col governarla, nel silenzio di tutti i suoi appartenenti, anche i non compartecipi. Anzitutto, quanto si va leggendo non può comodamente ascriversi ad episodi di pur disdicevole deviazione. È al contrario chiarissimo che le cose vanno – normalmente – in quel modo. È chiarissimo che per gli uffici che contano – quelli che indirizzano l’azione della giurisdizione, soprattutto delle temibili Procure – i magistrati si scannino tra loro. Sono rosi dall’ambizione a rivestire cariche di rilievo, al punto da infangare le reputazioni di colleghi, da imbastire vere e proprie congiure, da progettare strategie per l’occupazione di posti degne del Duca Valentino, non disdegnando di piegare uffici direttivi e relative funzioni alle loro brame, contemplando nei mezzi usati primo tra tutti il ricatto (ad esempio, sull’allora Procuratore di Perugia, competente ad indagare sui colleghi romani) ed a considerare tutto ciò come parte del gioco. Non solo ogni posto che conti qualcosa è oggetto dei più sfrenati desideri e delle peggiori mene, ma anche lo stesso governo dell’opinione pubblica è nelle mani dei giudici, come mostrano davvero deprimenti intercettazioni che non giovano alla buona reputazione di giornalisti, i quali mostrano di non sdegnare d’andar ben oltre la normale interrelazione tra il possessore della notizia (il Pm) e l’assetato di conoscerla (il giornalista). No, ad iniziativa dei vertici delle istituzioni giudiziarie, non alieno lo stesso Vice Presidente del Csm, si sono ideati piani d’azione per condizionare addirittura la linea informativa di importanti testate: mentre nella comunicazione pubblica le profferte di correttezza istituzionale non si lesinavano. E sarebbe ancora poco. Altre intercettazioni, sempre tra non ultimi dell’Ordine Giudiziario, dimostrano quanto quella funzione sia suscettibile di strumentalizzazioni politiche: vale a dire che venga rivolta da magistrati funzionari contro uomini democraticamente eletti, perché ritenuti “pericolos, sgraditi o epitetati anche peggio. Insomma, un inquietante squallore. Quel che è venuto cronachisticamente fuori è cosa ben risaputa da chi conosce l’ordine giudiziario, per appartenervi o per averlo studiato. È un ordine che fa politica inevitabilmente, perché politico è il compito di stabilire quali condotte siano corrette e quali no. La legge può poco in ciò; tutto il resto è Giudice. E questa dialettica – inevitabile – fa sì che il magistrato s’arroghi competenze e giudizi che son qualitativamente politica attiva. Il problema è che, quando il magistrato è come da noi un funzionario di carriera a stipendio, non può esercitare queste funzioni politiche in maniera schietta ed aperta e deve nasconderle dietro il riparo delle forme giuridiche: riparo assai sicuro ma, come tutti i luoghi che non lasciano trasparire la realtà, tende ad incancrenirsi ed a deviare. Ed allora si hanno tutti quei retroscena che, per un puro caso di lotte intestine, sono ormai alla sub sole. E vengono fuori cose assai poco edificanti: frasario da trivio, aspirazioni meschine, atteggiamenti talora quasi infantili, come quello di chi trepidante attende nei pressi del Csm, con tanto di scorta, la notizia dell’assegnazione della carica; e tanto altro, di peggiore. Ma quando queste cose vengono alla luce, non è più possibile pretendere rispetto: ci si mostra poveri e deboli come tanti altri, cosicché allorché si vorrebbe far la voce del rigore e della giustizia, si suscitano sentimenti reattivi che non sono proprio quelli che meglio consentono alla funzione giudiziaria di manifestarsi autorevole nella comunità. Io credo che sarebbe venuto il momento – ovviamente sempre che non ci si trovasse nell’attuale stato di rilassamento morale e di crisi della politica – per rivedere funditus lo stato della giurisdizione e per comprendere che così importanti e decisive funzioni non possano esser lasciati ad un ceto di carattere essenzialmente impiegatizio, con tutti i meriti ed i limiti scaturenti da tale condizione: tra i limiti, il più grave è l’aspirazione esistenziale alla carriera, il desiderio incontenibile per la di loro gran parte, d’incrementare i galloni, del luccichio del grado, della vanità cerimoniale: d’esercitare il vano potere. Un desiderio grazie al quale, quando la Politica svolgeva il proprio ruolo, si controllavano (con discrezione e maturità) tutti gli apparati dello Stato, magistratura compresa. Ma era meglio di quanto non accada oggi: quando quella carriera è controllata dall’interno, vale a dire in modo totalmente autoreferenziale ed ipocrita, senza confronti, senza possibilità di spezzare catene di comando che, tutt’altro che favorire autonomia ed autogoverno della magistratura, avvantaggiano logiche di potere tra le più deteriori, quelle di interne faide, di capicorrente – termine che ne evoca altro assai più sgradevole – di reti spionistico-informative, di gravi condizionamenti, tutt’altro che autonomizzanti. Il problema sarebbe da poco – o almeno non gravissimo – se non si trattasse della Giurisdizione: niente di meno dell’ordine di persone che è chiamato a dire ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, magari mettendo colui che ritenuto sbagliare in una poco ospitale cella di carcere o, non trascurabil cosa, privandolo del patrimonio.