Il diritto all’imbecillità del fenomeno Facebook
È certamente il segno dei tempi, quello attuale, moderno, edonistico e quello scandito dal metronomo volgare e diseducativo dell'uso incontrollato, rivoluzionario solo perché anarchico e privo di regole, dei social networks. Una rivolta culturale e antipolitica, che superando i confini etnici, etici e geofisici, sta contrastando la depauperante globalizzazione economica, combattendola con un'altra altrettanto pericolosa, l'associazionismo manipolativo delle parole a schema libero in Rete, esaltando la teoria dell'immagine, nell'intento di creare una resistenza capillare e dinamica al potere genericamente definito, ma senza affatto curarsi dei risultati e dei terribili danni collaterali che questa guerra, nata per gioco e per mero interesse personale del suo ideatore e mentore, sta producendo e dei cui effetti futuri dovremo ancora discutere e preoccuparci. Quando una iattura come Facebook si è insinuata nel vivere quotidiano di milioni di persone, stravolgendo i loro ritmi biologici - più del 70% degli iscritti usa il network come l'ossigeno per malati d'asma - travisando i metri di giudizio delle loro menti plagiate da una minoranza di ghostwriters nel senso più ingannevole del significato, di pensatori riesumati dal limbo della memoria e graziati dalla morbosa attenzione di una massa desiderosa di esprimere tutta la sua voglia di vanità repressa e dare voce alle proprie idiozie, c'è poco da celebrare, se non l'elogio di un'antica verità: l'imbecillità delle masse e la bestiale necessità dell'appartenenza al gregge belante o al branco. La rapidità dei traguardi tecnologici, della diffusione mediatica senza limiti, dell'interrelazione eterea e virtuale, paradossalmente sta dimostrando che la crescita culturale del pensiero ideale e l'acquisizione consapevole di questo incredibile potere non si è sviluppato di pari passo con tali intuizioni scientifiche e applicative; è la riedizione di un neocolonialismo, più pericoloso e incontrollabile di quello territoriale dei secoli scorsi, perché attinge al controllo subdolo della mente, dei costumi e della struttura sociale di milioni di adepti, senza la necessità d'indurli alla fidelizzazione attraverso strumenti chiaramente coercitivi. Abbiamo offerto ad impreparati ed incerti manovali della penna a sfera, il libero e copioso sfogo di una tastiera “qwerty”, senza manuale per l'uso, e quel che è peggio, senza rimarcare alcuna distinzione fra il danno di parole profuse e idiote, come quello di un fucile mitragliatore al posto delle frecce. Perciò, lèggere parole di commento attento e condiscendente a tale fenomeno, da parte di cultori del pensiero e convinti assertori del valore del sapere e della conoscenza, mi ha alquanto sconcertato e non ne ho fatto mistero. Non basta, a mio avviso, registrare la cavalcata impetuosa del successo economico del network, e l'incredibile profitto che da ciò sta derivando al suo furbo ed intelligente creatore, per trarre conclusioni ed ipotizzare quasi la nascita di una nuova religione. Una buona dose di onestà intellettuale porta certamente a dover comprendere, sezionare e commentare i nuovi elementi di un mondo globale che comunque sa sempre di antico, ma vanno considerate delle linee di partenza da cui iniziare un percorso critico, di libero arbitrio e che sia di stimolo a sprovveduti adoratori del nuovo feticcio mediatico. Umberto Eco, in occasione della consegna di un'ennesima onoreficenza, non esitò ad apostrofare il popolo dei social network come “una legione d'imbecilli” a cui era stata consegnata l'occasione della vita per esprimere tutta la loro pochezza, e in linea concreta siamo d'accordo, ma tocca a noi, che ci accolliamo, anche con una buona dose di snobismo intellettuale, comprendere e tentare di porre rimedio a tali evidenti storture. D'altronde, come ha notato Gianluca Nicoletti, ancora oggi la Costituzione dà diritto di parola anche ai “minus habens” e il ritirarsi aulicamente in una solitaria “turris eburnean” non migliorerebbe l'ignoranza della massa. Bisogna quindi tentare di comprendere insinuandosi magari come dei novelli “cavalli di Troia”, nel contesto dinamico e virtuale dei social network: in fondo è quanto astutamente già fanno i personaggi e le istituzioni bersaglio del gossip Facebook! Educare attraverso il network, ammonire i nostri giovani sulle insidie nascoste di una tale facile platea - basti pensare alle migliaia di profili fasulli e fuorvianti che imperversano sul network, tanto da farlo rinominare “Fakebook” il social del falso e dell'ambiguità - il proliferare conseguente di attività e teorie criminali, dalla pedofilia al mercato di giovani vite umane, è l'unica strada possibile allora? Non sono così convinto. Il Mein Kampf di Hitler ci mise 11 anni circa per teorizzare le masse tedesche sulla necessità del genocidio ebraico, gli stessi anni serviti a Facebook per sbaragliare il campo mediatico supertecnologico: non è un caso, non è una coincidenza, e, non sarà mai una nuova religione, perché entrambi i “fenomeni” racchiudono in sé il virus dell'autodistruzione: il pensiero migrante di chi non ha patria o non riconosce le proprie radici, e cerca una ragione aggregante per sentirsi importante nella propria nullità. Perciò, anche se riconosco che ogni giorno devo confrontarmi con l'imbecille di turno, e non posso vietargli la libertà d'esprimere finalmente tutta la sua insipienza ed ignoranza, sono con Eco, resto “un dinosauro snob”, mi tengo stretta la mia carta stampata e dico: Facebook? No, grazie.