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Il gioco del calcio è finito nella palude del “mercatismo”

Opinionista: 

Cos’è diventato il football? È con tutta evidenza un’altra cosa rispetto a quello conosciuto fino un paio di decenni fa. Raccoglie sempre sterminate masse di appassionati, soprattutto fruitori di spettacoli televisivi finanziati da miliardari che segnano avventure e disavventure di società calcistiche, ma i giovanissimi non si formano più come possibili protagonisti in quelle palestre di spontaneità che erano rettangoli o quadrati sbilenchi, segnati da poche cose raccolte qua e là per delimitare le porte e talvolta gli angoli. Nell’improvvisazione nascevano gli “eroi” che occupavano le menti e i cuori di fanciulli e adulti. Adesso le scuole di calcio impongono imperiosamente – a genitori perlopiù abbacinati dal mito di un successo a portata di mano per i propri figli – regole e comportamenti che il mondo dei bambini non capisce e mal sopporta. Si fa credere, dall’alto di un business inimmaginabile fino a pochi anni fa, che basta frequentare una di queste scuole, che spuntano come funghi soprattutto nelle grandi città, per avere concrete possibilità di affermazione, all’esoso prezzo della sottrazione della felicità a adolescenti che vorrebbero guadagnarsi il loro effimero, ma quanto radioso, momento di gloria, come accadeva prima che il calcio diventasse un’industria, divertendosi, dispiegando il loro naturale entusiasmo. Costretti, come fossero adulti in miniatura, a studiare schemi e tattiche, li si fa rinunciare alla gioia di rincorrere un pallone da mettere in rete perché prigionieri di regole che non formano, ma intristiscono. Osservateli nelle patetiche competizioni a cui danno vita: non hanno la gioia dipinta sui volti, lanciano sguardi preoccupati a manipolatori di coscienze, ma anche di membra in formazione, cercando approvazione o schivando plateali disapprovazioni che finiscono per condizionarli. Macchinette inceppate avvolte in improbabili divise copiate dai grandi club... Non sembra che da quando le scuole di calcio spopolano siano venuti fuori cammini da ricordare. E se avremo nuovi Maradona o “replicanti” di Falcao e Platini, quasi certamente non usciranno da lì. Lo sostiene con convinzione ed argomentazioni assolutamente fondate un genitore che si è ravveduto, Stefano Benedetti, in un libretto eloquentemente intitolato Sognando Messi. La verità sulle scuole di calcio (Edizioni Dissensi) nel quale ha messo il dito nella piaga dell’origine del malcostume calcistico, la cui dilatazione economico-politica è destinata a costruire leggendarie ambizioni nel governo calcistico e molte illusioni nelle squadrette che cercano di mantenersi in vita con poco o niente. Le scuole di calcio, segmento dello sport curiosamente poco indagato dai media, hanno pressoché gli stessi dominatori comuni: inadeguatezza del personale tecnico, improvvisazione nei metodi di allenamento quasi sempre copiati da quelli di allenatori affermati, il profitto economico quale fine da perseguire. Criticare un metodo o uno strumento non vuol dire denigrare lo sport e segnatamente il calcio che, specie in Italia, è la passione nazionale primaria. Ci mancherebbe altro. Ma si dovrebbe aver riguardo di quelle che dovrebbero essere le aspettative comuni, non soltanto di chi se lo può permettere, nel favorire l’espansione del movimento calcistico: in questo senso, la funzione dello Stato dovrebbe essere centrale, mentre le società, di professionisti o dilettanti, si dovrebbero attrezzare per immettere nei loro ranghi ragazzi che dimostrano di avere attitudini e talenti da far valere. Come accadeva una volta, quando osservatori attenti li prelevavano dalla strada, dagli oratori o dalle palestre pubbliche e private per il classico “provino”. Nei lontani anni dei babyboomers, allorché nei paeselli del Mezzogiorno, ma anche nel Nord agricolo del Paese, qualcuno veniva adocchiato da società le cui squadre militavano in serie D o nell’Eccellenza o in Promozione, diventava un personaggio da imitare o invidiare. Le cose sono cambiate. Alle scuole di calcio viene demandata, pagando profumatamente, la formazione di “campioni” che difficilmente diventeranno tali. È la strada più breve, o almeno ritenuta tale da genitori condizionati da un imponente apparato pubblicitario, che non guardano più alla possibilità del gioco praticato gratuitamente, esaltazione ludica per eccellenza; pur di innamorarsi del miraggio coltivato a fini di realizzazione sociale (quale scandalosa perversione!), si fanno volentieri spennare nella certezza, malriposta, che prima o poi saranno ripagati. Ma i bambini possono farsi incantare dal 4-3-3, dal 4-2-3-1 o altre diavolerie del genere? I ruoli sono fatti per le competizioni, cui partecipano squadre strutturate in formazione; il gioco non può essere ingabbiato in logiche per adulti, insomma. È quantomeno diseducativo. Oltretutto, avere a che fare con i bambini implica una severa pratica pedagogica. Sarebbe bene chiedersi, dunque, quali sono i risultati utili o almeno positivi prodotti dalle numerose scuole. E non sarebbe male censire i campioni o almeno i talenti da esse usciti negli ultimi anni. Dovrebbero domandarselo le strutture pubbliche, a cominciare dalla Fgci, ma anche quelle più generalmente formative, come la scuola, da cui dovrebbero uscire progetti educativi finalizzati all’affermazione in campo sportivo piuttosto che quell’esile, quando non dannosa, ora di educazione fisica settimanale. Ma l’orizzonte pubblico è talmente affollato di problemi che quelli connessi al rapporto tra sport e giovani generazioni non vengono presi seriamente in considerazione. Del resto, i tanti ministri dello sport e della gioventù che abbiamo visto succedersi dagli anni Settanta in poi non sembra abbiano lasciato molto in eredità. Le scuole di calcio, imprese ad alto reddito, suppliscono a deficienze politiche. Dovremmo gioirne? Non è vietato sognare Messi, ma ci piacerebbe che i bambini di oggi lo facessero come noi sognavamo Sivori e Charles, correndo dietro ad un pallone nelle sconnesse aree della nostra felicità, un paradiso – diciamocelo francamente – perduto per sempre. In vista delle qualificazioni mondiali, i club, nelle mani di affaristi apolidi, continueranno a concedere (quando non a negare) di malavoglia i loro giocatori alle nazionali. Temono infortuni, disagi, perdite di tempo. Una volta erano orgogliosi di avere i propri gioielli tra i convocati delle rappresentative dei vari Paesi. Oggi è una scocciatura che può mettere a repentaglio il fatturato/conciatura. Tuttavia, non si possono sottrarre. E, sia pure con un groppo alla gola e qualche apprensione, sono costretti a fare buon viso a cattivo gioco: partita dopo partita, la tribù globale del calcio internazionale si ritrova così in un qualche angolo del mondo dove celebra i propri fasti in uno scenario planetario condizionato da grandi affari economici e finanziari. La passione dei poveri mortali alimenterà uno dei più ricchi business della storia. Il Mondiale di calcio, tuttavia, è un fenomeno contagioso. Un grande spettacolo. Indipendentemente dalla qualità: l’attuale presidente della Fifa vorrebbe allargare la platea dei partecipanti a quarantotto squadre. Una storia infinita e di scarsissimo livello agonistico, tranne che per una decina di partecipanti. Si fa illudere che ci sia gloria per tutti, ma la gloria frutta denaro, e perfino chi è consapevole di arrivare ultimo si adatta al ruolo in cambio di milioni di dollari. Dal 1930, in ogni continente, nonostante il mercatismo trionfante, o forse proprio grazie ad esso, continua a crescere il numero degli adepti che s’identificano con il football alla stregua di una religione profana. Una religione dai costi altissimi e dalle rese economiche ancora più alte. Un affare incalcolabile fondato sul primordiale istinto dell’antagonismo che diviene, in alcuni deprecabili casi, feroce, incontrollabile e assoluto.