Il metodo gattopardesco della magistratura italiana
Tra qualche giorno inizieranno le votazioni per l’elezione della componente laica del Consiglio Superiore della Magistratura. Si devono scegliere dieci dei trenta componenti dell’organo della magistratura: che – insieme alla componente togata, eletta dai e tra i magistrati, ed ai due membri di diritto Primo presidente e Procuratore Generale presso la medesima) – sotto la felpata guida del Presidente della Repubblica, costituiscono l’istituzione cui è affidato il governo dei nostri giudici. Questi dieci membri sono estranei all’ordine giudiziario – e perciò son detti ‘laici’, per distinguerli dai chierici ammantati di toga – e dovrebbero essere tratti da avvocati e professori di diritto, dunque da tecnici in grado di compensare l’eccesso di corporativismo che si coltiva con molto impego all’interno dell’ordine giudiziario. Il Csm è stato oggetto delle cure ‘riformatrici’ dell’ex ministro della Giustizia, la professoressa Marta Cartabia, persona assai elogiata nelle sedi istituzionali e pare particolarmente stimata dallo stesso Presidente della Repubblica. Si tratta di una giurista dell’Accademia, senza alcuna esperienza di vita giudiziaria, se non quella da Presidente della Corte costituzionale. Un organismo, quest’ultimo, che somiglia molto più ad una corte reale con tanto di dignitari e valletti che non ad una corte giudicante, con cancellieri e nodosi ufficiali giudiziari. Quando la ‘riforma’ Cartabia fu approvata con il dichiarato fine di scacciar via la politica dal massimo organo d’organizzazione del potere giudiziario, mi fu facile prevedere – ma davvero era sufficiente un esame di semplice buonafede (da non confondere col ministro della Giustizia dell’epoca) – che non sarebbe servita nemmeno a scalfire d’un’unghia il potere dei giudici e tampoco a sottrarre la giurisdizione alle logiche della più squisita distribuzione del potere secondo indirizzi politici. Che si tratti di politica dei giudici o di politica dei politici – o di tutte e due messe insieme, come in effetti avviene – poco conta. Cert’è che quel che è passato sotto il sintagma ‘riforma Cartabia’, praticamente non è nulla. Lo si certificò subito, prima dell’ultima estate, quando i giudici procedettero ad eleggere i 20 loro rappresentanti: 19 d’essi facevano espressa professione d’appartenenza ad una corrente dell’Associazione Nazionale Magistrati, insomma erano esponenti delle formazioni politiche in cui caparbiamente s’articola il nostro Ordine Giudiziario; il ventesimo ed ultimo, poi, fu eletto grazie al forte appoggio d’una corrente, pur senza dichiaratamente aderirvi. Un indubbio successo, per una riforma che proclamava di voler snervare quelle correnti, il cui disadorno operato era stato messo impietosamente a nudo dallo scandalo Palamara: scandalo per il quale ha per davvero pagato solo costui, cioè chi lo aveva messo a nudo. Ma nessuna meraviglia in proposito. Ora è la volta dell’elezione dei componenti laici: i non magistrati, quelli che dovrebbero essere tratti dalla società civile all’interno del ceto dei giuristi, tra i migliori avvocati e professori universitari. La ‘riforma’ prevede che debbano essere presentate candidature: da ridere, perché persone di qualità andrebbero pregate con ogni garbo perché s’impegnassero a sostare per quattro anni all’interno di un così poco accreditato organismo, lì a combattere le peggiori deviazioni del potere giudiziario. Ed è altamente improbabile che persone dotate di tali intenzioni avanzino candidature: in pochi vogliono il proprio male. Quello ideato è piuttosto un modo per selezionare tra chi ambisce per gusto di potere o per utili sistemazioni: nulla di male, ben s’intenda, ma non ciò che serve all’istituzione. A quel che risulta, le candidature sono centinaia, un sintomo non certo eccellente per un luogo in cui dovrebbero essere selezionati personalità al di sopra d’ogni sospetto e di altissima qualificazione, quella necessaria a far da contraltare ai giudici, che considerano il Csm cosa di loro esclusiva cura. Ma poi, se si guarda a quel che in questi giorni alla vigilia del voto per i laici sta avvenendo, ancor meglio si comprende con quanta abilità la ‘riforma Cartabia’ abbia scacciato la politica dal Csm, quanta paura abbia messo addosso a chi vuol fare dei giudici uno strumento per battaglie di potere: il processo in corso a Palermo nei confronti di Matteo Salvini qualcosa pure la dice e proprio in questi giorni. I nomi in circolazione con maggior lena per il ‘nuovo’ Csm sono squisitamente politici, schierati tra e dai diversi partiti che si contendono gli agognati seggi, tutti di soggetti che sono stati o sono pienamente impegnati in varia veste nelle aule parlamentari e nelle sedi dei partiti: non manca nemmeno quello della Marta Cartabia, autrice dell’eccellente riforma. La vicenda di questa inetta riforma dei vertici dell’organizzazione della magistratura italiana è assai rappresentativa – e questo è il peggio – del gattopardesco metodo con il quale nel nostro Paese si affrontano i problemi delle istituzioni: essendo sempre assai più forti, in qualunque settore, le resistenze corporative rispetto alla capacità dello Stato di fare sintesi e di vincere gli interessi malamente stratificatisi intorno a centri di potere settoriali, più che riformare, si usa gettar fumo negli occhi. In occhi di chi non comprende o non vuole comprendere, naturalmente. Il problema è però che il problema rimane e s’incancrenisce a oltre ogni dire, rafforzando il convincimento dei tartufi nel poter continuare, magari con un po’ più d’ipocrisia ed accortezza, a fare i propri suini comodi, mentre nel frattempo il Paese va a ramengo. Ma tant’è.