La crisi finanziaria è già crisi industriale
Ci stiamo giocando l’osso del collo. La situazione economica della Nazione è da allarme rosso. E l’Europa non c’entra una mazza. Men che meno c’entra la procedura d’infrazione che alla fine sarà una scelta politica, non tecnica. State pur certi che con questi chiari di luna ci penseranno mille volte prima d’innescare un nuovo caso Grecia. E allora? Allora c’entriamo noi. Le scelte dei nostri ultimi governi, che sono in perfetta ed assoluta continuità. A cominciare da quelle dell’Esecutivo che doveva essere «del cambiamento», ma l’unica cosa che ha cambiato è la velocità alla quale ha lanciato il treno verso il burrone. Un filo rosso unisce il bonus 80 euro di Renzi alla quota 100 gialloverde: indebitarsi sempre di più e ad un costo sempre maggiore per pagare misure elettoralistiche e prepensionamenti. Lo spread è più alto della crescita nominale del Pil: significa che l’economia non riesce neanche a ripagare gli interessi sul debito, quindi per rimanere sostenibili siamo costretti a chiedere altri prestiti. Capito in che razza di casino siamo? Vi pare possibile che in queste condizioni ci siano in giro politici che propongono ulteriori debiti? Ovvio che questa situazione si riverberi sull’economia reale. Di Maio ha ragione: Whirlpool ci prende per i fondelli. Ma se quei pochi investitori stranieri che ancora arrivano poi fuggono, e se per convincerli a venire li dobbiamo ricoprire di denari (27 milioni a Whirlpool che si rimangia gli accordi, 84 a Ilva che annuncia la cassa integrazione) è perché da noi investire non conviene. Tasse, burocrazia, giustizia e infrastrutture al Sud sono i fattori che frenano gli investimenti e nulla hanno fatto i gialloverdi in un anno di governo per migliorare le cose. Ma a fermare chi investe c’è anche una Nazione perennemente in bilico sull’orlo dell’abisso finanziario, senza una politica industriale, che pensa più ai pensionati che ai lavoratori ed è a crescita zero. Ficcatevelo bene in testa: i conti pubblici sono conti privati. Se i primi vanno gambe all’aria, prima o poi ci vanno pure i secondi. Soprattutto da noi, dove debito pubblico, risparmio e credito privato sono legati a doppio filo attraverso le banche, vista la quantità industriale di Btp detenuti dai nostri istituti di credito. Avevamo scritto in tempi non sospetti che l’Italia rischiava di rivivere il dramma del 1992, quando il Governo di Giuliano Amato nottetempo mise le mani direttamente nei conti correnti con un prelievo forzoso del 6 per mille. Beh, quando si fa un errore bisogna avere il coraggio di riconoscerlo. Ci sbagliavamo. In effetti qui non si rischia un nuovo 1992. Ma qualcosa di peggio. All’epoca bastò (su fa per dire) prelevare il 6 per mille. Oggi non sarebbe più sufficiente. In alcune stanze del Fondo monetario internazionale si discute di un taglio forzoso del debito italiano: basta questo per capire a quale livello di rischio siamo esposti. L’alternativa? Una patrimoniale durissima sul risparmio privato. Il tutto, sia chiaro, non per compiacere l’Europa o per ottemperare a parametri ottusi. Ma per evitare di dichiarare la bancarotta. E meno male che per altri 6 mesi ci sarà Draghi. Giovedì ci ha regalato altro tempo, lanciando un nuovo maxi prestito alle banche e indicando la strada a tutti: «Non credo che all’Italia sarà chiesta una riduzione rapida del debito, ma il piano dev’essere credibile». È su questo che si siglerà il compromesso con l’Ue. Altrimenti arriverà la Troika. L’unica cospirazione in atto è quella di chi vuol comprare consenso caricandone il costo sulle spalle nostre e dei nostri figli. Anche se il Governo troverà un accordo con l’Ue, finirà come nel 2018: sarà a scapito degli italiani. A cosa è servita l’intesa con Bruxelles l’anno scorso? A ritrovarci oggi punto e a capo, con la necessità di varare una manovra da 40 miliardi? La soluzione non è fuori, ma dentro casa nostra. Non serve cambiare ministri. Occorre cambiare Governo.