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La difficile terapia per una giustizia malata

Opinionista: 

Cari amici lettori, lunedì, su queste pagine, Orazio Abbamonte ha efficacemente evidenziato come lo strapotere dei pubblici ministeri italiani non sia stato minimamente scalfito dal caso Palamara. Altrove ci sarebbe stato un terremoto e una corsa al ripristino delle istituzioni: in Italia l’unico effetto è stato un ulteriore crollo della fiducia dei cittadini, poiché ormai solo il 30% degli italiani conserva una certa fiducia nella magistratura. La riforma Cartabia appare come un placebo e il caso Valentino dimostra che un qualsiasi pubblico ministero può ordinare al Parlamento in seduta comune di non mandare al C.S.M una persona sgradita agli inquirenti. I cittadini che seguono le cronache sanno che Abbamonte ha perfettamente ragione e non c’è bisogno di accumulare gli innumerevoli esempi di scandalosa ingerenze degli inquirenti nel mondo della politica. Resta da considerare il da farsi perché le cose cambino e, possibilmente, non nella maniera descritta dal “Gattopardo”. Giorgia Meloni ha fatto il primo passo, nominando Nordio ministro della giustizia e assicurandogli tutto il proprio sostegno. Ma, ahinoi, sul primo punto esaminato, quello delle intercettazioni, la massiccia controffensiva delle truppe togate ha già strappato la promessa di una riforma concordata. Come a dire che il governo non userà missili e carri armati Leopard, ma solo qualche innocuo attacco di fucileria. Ma, oltre venticinque anni dopo che i colleghi sabotarono il convegno da me organizzato a Castelcapuano sulla separazione delle carriere (dopodiché anche io fui pretestuosamente imputato… e assolto), non è il caso di rimandare ancora la corsa ai rimedi contro l’agonia della giustizia. Partiamo dall’articolo 107, quarto comma della costituzione: “Il pubblico ministero gode delle garanzie stabilite nei suoi riguardi dalle norme sull'ordinamento giudiziario”. Questo significa che il potere legislativo può modificare, entro ragionevoli limiti, le garanzie godute dal pubblico ministero senza ricorrere alle procedure di modifica costituzionale, ma intervenendo sulle norme dell’ordinamento giudiziario. Occorre ora considerare una realtà numerica: i pubblici ministeri sono una parte minoritaria della magistratura, ma diventano maggioranza nel Consiglio superiore e negli altri organi rappresentativi. Questa anomalia può essere radicalmente eliminata con la separazione delle carriere. Veniamo ora al primo argomento sul tappeto: le intercettazioni. Nessuno immagina che le intercettazioni debbano essere abolite (fermo restando che i parlamentari ne sono esenti, salvo autorizzazione delle Camere). In particolare, tutti sono convinti che servano per i reati di mafia e di terrorismo. Ma ci sono due punti indiscutibili. Il primo è che le intercettazioni debbono servire a cercare prove di reati già noti all’inquirente per preesistenti indizi e non per andare alla ricerca di reati immaginari. La violazione di questo principio è un illecito proprio del magistrato inquirente e andrebbe severamente perseguita. Il secondo è che il segreto istruttorio dovrebbe essere sacro e inviolabile. Il pubblico ministero deve vigilare si propri collaboratori e reprimere esemplarmente ogni violazione. Molto spesso, però, è proprio il magistrato il responsabile: nel caso Valentino la violazione è evidente, poiché solo il pubblico ministero sa di avere nel cassetto un vecchio fascicolo per un fatto non meglio precisato, ma pronto ad essere usato in caso di bisogno, cioè per infamare una persona sgradita. Comportamenti di questo tipo dovrebbero essere severamente perseguiti, introducendo un delitto di rivelazione del segreto istruttorio commesso dal magistrato (aggravante), che dovrebbe comportare la pena accessoria della espulsione o, quanto meno, della sospensione dall’esercizio delle funzioni. Se sul problema delle intercettazioni il tavolo con i pubblici ministeri finisce a tarallucci e vino, è inutile perdere altro tempo. L’agonia della giustizia italiana continuerà, poiché è inutile chiacchierare di riforme serie, se queste non si possono fare senza il consenso di chi le rende necessarie.