Accessibilità:
-A A +A
Print Friendly, PDF & Email

La Giurisdizione non può non “fare politica”

Opinionista: 

L’ordinanza che il giudice per le indagini preliminari di Agrigento Alessandra Vella ha emesso nel caso di Carola Rackete è un’ottima occasione per riflettere su quanto la giurisdizione, nel pieno rispetto dei suoi limiti formali, possa svolgere un ruolo politico di tutto rispetto. Son cose che per i non addetti s’intendono poco: si dice e si ripete che il giudice si limita ad attuare la legge, che egli ne è la bocca, che la sua indipendenza ed autonomia sono inconculcabili valori. A parte quanto in questi mesi si sta apprendendo circa il modo in cui dell’autonomia ed indipendenza i giudici hanno fatto uso, il problema sta nel fatto che la Giurisdizione svolge un compito intrinsecamente politico e dunque non può non “far politica”. Che cosa ha detto la giudice Vella? Essa ha fatto gagliardo uso dell’art. 51 del codice penale. Una norma che esclude il ricorrere della condotta criminosa, allorquando l’agente sta adempiendo ad un proprio dovere. Il carabiniere che spara contro il reo di omicidio che gli si rivolta contro, pone a sua volta in essere una condotta materialmente omicida, se ne segue la morte del delinquente; ma quella condotta non è reato per l’ordinamento, perché il milite ha agito nell’adempimento del proprio dovere giuridico di assicurare alla giustizia il sospetto reo. Purché non ecceda dai limiti della necessità dettata dalla contingenza in cui si trova, il carabiniere non avrà posto in essere una condotta che l’ordinamento giuridico qualifichi come criminosa: ha solo fatto il proprio dovere. È un’esimente, quella dell’adempimento di un dovere, molto parcamente applicata dai giudici perché, intuibilmente, essa pome a rischio la tenuta del sistema giuridico e rischia di dar luogo all’anarchia. Cos’ha fatto Carola Rackete? Nella notte del 29 giugno entrava nel porto di Lampedusa in assenza dell’autorizzazione a farlo e, con la sua stazza di 1.300 tonnellata si avvicinava alla banchina commerciale dove era presente – per impedirle l’ormeggio – una motovedetta della Guardia di Finanza di appena 17 tonnellate , speronandola e comprimendola tra la banchina e la sua mole. Solo un’ardita manovra dei finanzieri a bordo ha evitato il peggio (la fine del sorcio). Ora, secondo il giudice Vella, questa poco amichevole condotta non costituirebbe reato, perché compiuta nell’adempimento del dovere di salvare vite umane. Che la tesi del sagace magistrato sia opinabile, lo comprende chiunque: il dovere di salvare vite umane era stato già tempestivamente adempiuto dalla Sea-Watch, allorché aveva prelevato a bordo i migranti; al momento, si trattava invece di stabilire dove essi avrebbero dovuto essere recapitati e nessuno di loro versava in condizioni che lo ponessero a rischio di sopravvivenza: la cambusa della motonave era stata adeguatamente rifornita dalle autorità italiane ed erano state sbarcate le persone che ne avevano necessità. Ma il giudice ha ritenuto diversamente: ha ritenuto che quegli ospiti costituissero una sorta di salvacondotto, che consentiva al capitano di compiere qualsiasi manovra pur di sbarcare sulla terraferma i profughi: anche di mettere a rempentaglio la vita dei finanzieri. Non dico che la cosa sia insostenibile; tant’è che, con risoluto argomentare, il giudice l’ha sostenuto. Dico che si tratta d’una scelta assai ardita, una scelta che pone – non la politica ed il Governo contro la Giurisdizione – ma la Giurisdizione su una linea politica contraria all’Esecutivo, cui compete di stabilire la posizione dell’Italia in materia d’immigrazione. Certo, il giudice potrà dire d’essersi limitato all’applicazione della legge, anche se in realtà la legge ha potuto disapplicare grazie ad un’interpretazione molto avanzata dell’esimente dell’adempimento del dovere. Ma resta il fatto che la decisione presa ha posto nel nulla – e con un tratto di penna – l’intera linea politica del governo italiano, aprendo la strada ad un liberale accesso nei porti dello Stivale, grazie al salvacondotto del migrante a bordo. Ora, ognuno vede che sarebbe stato molto semplice per il giudice pervenire ad una conclusione opposta, dato che nessuno correva rischio di vita e che lo sbarco si sarebbe comunque realizzato (peraltro, la mattina seguente), conformemente agli ordini dell’autorità, lì o altrove. Ed ognuno vede che quella decisione – costituendo un precedente per il futuro – ha completamente annichilito l’autorità dello Stato. Ed ognuno comprende che l’autorità dello Stato è un problema serio in simili contingenze. Certo, è facile rispondere che lo Stato di diritto contempla un giudice indipendente ed irresponsabile dinanzi all’autorità amministrativa. E qui viene il punto. Contemplerebbe anche un giudice che per formazione e cultura sappia intendere i limiti del proprio mandato ed il valore fondamentale della sovranità di cui esso stesso è espressione, forse la massima espressione. E dunque è, a mio giudizio, un problema di cultura del giudice, della sua formazione, del modo in cui viene selezionato. Quelli di oggi superano un concorso e sono poi amministrati dal Csm; quelli che vedo io, devono essersi prima distinti in attività professionali giuridiche o politiche di rilievo e poi essere scelti con adeguate procedure competitive. La Giurisdizione è cosa molto seria e richiede una maturità di spirito che il concorso non solo non seleziona ma nemmeno è fatto per intravederla.