Accessibilità:
-A A +A
Print Friendly, PDF & Email

La parsimoniosa retribuzione dello Stato ai suoi docenti

Opinionista: 

Recenti vicende di cronaca hanno riportato, come ciclicamente accade, all’ordine del giorno il tema della retribuzione che lo Stato italiano parsimoniosamente elargisce ai suoi docenti. Il quadro che ne viene fuori è desolante. Com’è stato facile dimostrare – ma ben lo si sa da sempre, senza vi si ponga rimedio – i professori di scuola primaria e secondaria percepiscono uno stipendio da fame. Entrano di prima nomina con qualcosa che va dai 1.300 ai 1.400 € al mese e si licenziano dopo circa quarant’anni di logorante servizio con un mensile che non raggiunge gli € 2.000. S’è rimarcato che i novelli didatti ricevono un trattamento da soglia di povertà: tale essendo la condizione di chi è chiamato a mantenere la propria famiglia – non di cinque figli, bensì appena di uno o due – con simile erogazione retributiva. La geniale proposta venuta fuori da una tal desolante constatazione è che si dovrebbero erogare retribuzioni differenziate tra Nord, Centro e Sud della Penisola: ufficialmente, per tenere conto dei diversi costi della vita nelle tre aree del Paese; nella sostanza, per secondare le regioni centro-settentrionali nell’illusione di dotarsi d’un apparato d’insegnanti più elitario, rispetto alle meridionali, che già non eccellono – stando ai testi invalsi – per risultati nell’azione didattica. Come assai spesso succede, nello Stivale le questioni non s’affrontano nella loro serietà, per quanto cioè siano piene d’implicazioni e comportino conseguenze durature nel tempo, se non correttamente trattate; sono piuttosto avvinte dal dibattito mediatico del momento, sono processate secondo le regole della peggior propaganda e sono trasmutate in una poltiglia inaffrontabile, buona solo ad occupare per qualche ora giorno dibattitti inconcludenti che, appunto perché tali, lasciano le cose esattamente come le avevano trovate in precedenza: per di più, gravate d’una stucchevole retorica, che le rende ancor meno trasparenti e che, per il disgusto cui induce, le allontana dall’analisi seria, quell’unica capace di pensare alle cose in una prospettiva di superamento e ricollocazione su d’un piano di produttività ed efficienza. Premesso che il nostro Paese retribuisce i propri docenti con stipendi che sono largamente al di sotto della media; e considerato che i più virtuosi tra gli Stati del Vecchio Continente, come Germania ed Olanda, corrispondono ai loro insegnanti compensi più o meno pari al doppio dei nostri, è quasi banalità osservare che pagare i docenti con stipendi da soglia di povertà – esatto: da soglia di povertà – significa far educare le generazioni che verranno, da persone che nella migliore delle ipotesi con la comunità che a questo compito le designa, ce l’hanno: e ce l’hanno a morte. Ovvio ce l’abbiano: come si può immaginare che un docente entri in classe animato dal desiderio di trasferire ai suoi allievi il senso dell’esser cittadino dotato di senso critico, consapevolezza ed abito di responsabilità per il bene collettivo, quando quella fonte di trasmissione del sapere mentre si rivolge ai suoi discenti, sempre che loro effettivamente si rivolga, deve star lì con il suo pensiero a fare i conti per portare il pane a casa, acquistar le scarpe per i figli, garantire serenità a se medesimo ed al nucleo dei suoi affetti? Inoltre, aggiungerei, per essere docente, bisogna anzitutto coltivare se stessi, il proprio spirito, secondare le esigenze del sapere: poter accedere a libri o a più moderni strumenti d’acquisizione dei saperi: bisogna avere l’animo sgombro dalle più impellenti esigenze del quotidiano, per dedicare quel medesimo animo al tempo necessario per irrorarlo d’interessi, per seguitarne le curiosità, per indurlo a nuove pulsioni, insomma per consentire all’intelligenza di vivere percorrendo i proprio itinerari, senza essere continuamente traviata dalle esigenze inconculcabili dell’immediato, che le impediscono d’arricchirsi del mediato: cioè a dire dei frutti di una cultura avanzata, quella che poi dovrebbe essere per il docente stesso deposito di conoscenze alle quali quotidianamente attingere nel colloquio motivante con i propri allievi. Queste non son parole poetiche d’un vecchio docente costretto ad osservare quanto di deprimente lo contorna. Lo saranno pur anche, ma costituiscono la base elementare – nulla di raffinato: propriamente la base elementare – perché d’insegnamento possa seriamente predicarsi. Se manca l’input, non può esserci l’output: detto in altri termini, se non c’è modo per il docente di coltivarsi, ben poco sulla sua pianta fiorirà e conseguentemente ben poco nutrimento potrà trasmettere. Certo, ci sono, per la verità, nemmeno rarissimi, casi in cui, indipendentemente dalle condizioni materiali (qui è Marx ad affiorare), spiriti eletti di docenti si dedicano ad alimentare le proprie conoscenze ed a trasmetterle. Ma non è su costoro che possa contare l’organizzazione: l’organizzazione deve essere efficiente in sé, non profittare d’eroi (e qui è Brecht a suggerire): anche perché gli eroi si chiaman tali, proprio perché soggetti d’eccezione. Se un magistrato percepisce alla fine della sua carriera – indipendentemente dal lavoro che ha svolto – un trattamento retributivo di cinque volte maggiore a quello del docente, c’è poi da meravigliarsi se il nostro Paese, a spanne (qui giudizio mio), è almeno cinque volte più incivile di altri che pagano i docenti più o meno quanto i giudici? La società è un po’ come la calza della Befana: al mattino, si potrà pure far finta di meravigliarsi, ma ci si troverà esattamente quanto vi s’è stipato la sera precedente.