Accessibilità:
-A A +A
Print Friendly, PDF & Email

La resistenza di Pietro tra le rovine del progresso

Opinionista: 

Un avvenimento epocale. Non solo e non tanto perché un Papa che presiede i funerali di un altro Pontefice non si era mai visto, ma soprattutto perché piazza San Pietro ieri  ha assunto le sembianze di un bastione di resistenza. L’estremo tentativo della Chiesa, o di una parte di essa, di non cedere allo spirito del tempo. Chiunque volesse uscire dai binari obbligati della retorica, dai falsi unanimismi e dalle posizioni di facciata contrite sotto sotto anche un po’ ipocrite non può non ammettere che i funerali di Joseph Ratzinger siano stati l’ultimo atto di un’esistenza profetica, ma anche il primo della resa dei conti tra conservatori e progressisti che si annuncia. Correva l’anno 1969 e questo grande intellettuale, allora poco più che quarantenne, così immaginava la cristianità indebolita e incerta che sarebbe poi giunta ai nostri giorni: «Dalla crisi odierna emergerà una Chiesa che avrà perso molto. Diventerà piccola e dovrà ripartire più o meno dagli inizi. Non sarà più in grado di abitare molti degli edifici che essa aveva costruito in tempi di prosperità. Man mano che il numero dei suoi fedeli diminuirà, perderà anche molti dei suoi privilegi sociali. Rispetto all’epoca precedente, sarà considerata molto di più come una società volontaristica». Rileggere oggi quel messaggio, pronunciato alla radio della Baviera il giorno di Natale, fa impressione per il suo carattere premonitore: una Chiesa minoritaria e ridotta ad una specie di grande Ong. Che avanza a fatica nel deserto della scristianizzazione, senza riuscire a frenare la crisi delle vocazioni, né quella dei devoti. Oltre all’inesorabile espansione del materialismo ateo, Ratzinger non poteva ancora vedere l’altra grande minaccia che la civiltà della Croce avrebbe dovuto affrontare al sorgere del nuovo secolo: il fondamentalismo islamico e la sua volontà di sottomissione a colpi di scimitarra. Appena il pericolo si palesò, Benedetto XVI l’ultimo Papa ad aver sognato una centralità intellettuale e spirituale dell’Europa nel mondo non esitò ad affrontarlo da par suo: impugnando la fede nella mano destra e la ragione nella sinistra. Ne venne fuori il formidabile discorso di Ratisbona del 12 settembre 2006, che non a caso provocò reazioni durissime e violente non solo nel mondo islamico, bensì anche nell’Occidente secolarizzato e relativista. Quella straordinaria lezione, infatti, ancora oggi rappresenta un grande manifesto conservatore e al tempo stesso l’allarme per una Chiesa che rischia di cedere all’assedio delle potenze di questo mondo; sconfitta in qualche modo dall’ateismo e dal nichilismo che innervano la società dei consumi, i santuari della finanza e dell’ideologia di un progresso senza Dio e sempre più spesso contro Dio. Nel 2011, due anni prima di dimettersi dal soglio pontificio, Benedetto XVI denunciò «una forte corrente di pensiero laicista che vuole emarginare Dio dalla vita delle persone e della società, prospettando e tentando di creare un “paradiso” senza di Lui. Ma l’esperienza insegna che il mondo senza Dio diventa un “inferno”». È la dittatura del relativismo che produce un malinteso “dialogo”, al termine del quale i concetti di bene e male, verità e menzogna, perdono di senso e diventano un unico indistinto. Una notte in cui tutte le vacche sono nere. Un rischio che Ratzinger vedeva e criticava spesso in splendida solitudine e oggetto di molteplici attacchi e accuse anche in relazione alla trasformazione dei diritti umani in ideologia umanitaria. Il processo di dissoluzione passa per il divorzio tra l’idea di Dio e l’uomo quale soggetto di diritto: quando ciò accade, spiegava il Papa emerito, si giunge al “diritto” nichilista dell’uomo di confutare se stesso. È così che nascono leggi che, negando il diritto naturale, si ritorcono contro l’uomo stesso. La dimostrazione che persa la fede, anche la ragione segue la stessa sorte.