La Sanità da rifondare: subito scelte coraggiose
Ogni qualvolta, per la verità sempre più spesso, si parla della Sanità in Campania, delle sue annose problematiche - scarsità di organici, esiguità di fondi rispetto ai bisogni e delle preoccupanti consequenziarie inadeguatezze - riemerge il dilemma, della “coperta corta”. Cioè di una permanente precarietà, tra aggiustamenti in un settore e scompensi in altri, nel segno della metafora appena citata. Questa situazione, tra le più dannose, perdura da tempo. Risale a un passato che scotta ancora, alla egemonica, conflittuale diarchia Bassolino-De Mita. Servita, giova dirlo, anche però da alibi a successive negligenze. Al punto in cui siamo giunti, potrebbe risultare prezioso un lontano discorso di Marcel Proust, che suggeriva di “non essere eccessivamente disposti a credere che il presente sia l’unico stato di cose possibile”, ma di valutare la opportunità di forzare i vecchi schemi e andare oltre. Un concetto caro anche a Bertrand Russell, secondo cui “se la civiltà scientifica vuole essere una ‘buona civiltà’, è indispensabile che l’amore del sapere si accompagni a una saggia concretezza”. Dopo aver sentito dire da più parti, addirittura molto tempo prima della fine della pandemia, che nulla sarebbe stato più come prima, è giunto il tempo di dimostrarlo nel modo più costruttivo, rimettendo coraggiosamente in discussione sistemi e modelli non più proponibili o da aggiornare. Cosa che qualche giorno fa ha inteso fare nel corso di un convegno al Senato il professor Enrico Coscioni, presidente dell’Agenas, Agenzia Nazionale per i servizi sanitari regionali. Il quale ha detto: “Se si vuole salvare l’assistenza ospedaliera serve un piano Marshall anche per la Sanità, cioè: un numero maggiore di medici, una nuova e avanzata legislazione d’intesa con le università e perché no? L’impiego anche degli “specializzandi di medicina del primo anno negli ospedali”, andando oltre gli specialisti d’urgenza” nel Pronto soccorso. Il tempo di dirlo ed è stata subito una levata di scudi sulla improponibilità della proposta, definita assurda, pericolosa, sostenendo che “lo specializzando è inesperto, e impiegarlo in ospedale con compiti assistenziali autonomi crea problemi alla sicurezza dei pazienti e rischia di bruciare lo stesso medico. La specializzazione da noi dura cinque anni”. Giusta ogni cautela ma parole del genere di un no tranchant all’impiego degli specializzandi in Pronto Soccorso, fanno però emergere, senza volerlo, un aspetto poco edificante, cioè le sempre più insostenibili lungaggini e inadeguatezze di corsi di studi universitari per una professione complessa, che appena raggiunta non consente nemmeno di stare in un pronto soccorso. Un fatto raccapricciante, considerando che “il numero chiuso per gli accessi a medicina rapportato a capienza, numero di organici e utilizzo di strumentazioni”, dovrebbe di per sé darci professionalità complete già da trincea. A questo punto ribaltando il discorso, viene da chiedersi, perché mai i nostri policlinici universitari, dove si insegna di tutto e, con molto rigore, con una serie di cattedre per le discipline più impensabili, non vi siano presidi di “pronto soccorso”. Dove, se non qui, dovrebbero esservi? È come avere una scuola di calcio priva di un campo dove potersi allenare. Nel ribadire la nostra gratitudine per quanto fatto dalla Sanità campana durante e dopo il Covid nonostante limiti oggettivi, nella odierna querelle sulla crisi dei “Pronto soccorso e delle vocazioni” , ancora una volta si dimostra lungimirante il parere della presidente della Scuola di Medicina e Chirurgia dei medici della Federico II, Maria Triassi. Che invita “a valorizzare seriamente le competenze, a trattenere i neolaureati a casa loro con stipendi decenti anche per scoraggiare fughe all’estero già in atto in seguito a offerte più allettanti e a muoversi da subito. Ma quel che maggiormente ne va apprezzato è quel suo valutare “senza pregiudizio” la proposta degli specializzandi nei” Pronto soccorso” pur ribadendo la indispensabilità del percorso formativo. La dolorosa esperienza del Covid ci ha fatto vedere la realtà con maggiore attenzione e partecipazione, scoprendo cose che non avremmo mai immaginato durante i giorni del distanziamento, annullato da ore di conversazioni telefoniche. In cui a proposito del mondo della sanità, di sorprese che non finiscono mai, una nostra amica ce ne ha rivelato una da “oscar”, molto significativa in rapporto alla odierna levata di scudi sugli “specializzandi” al Pronto soccorso. In seguito a una rovinosa caduta, con frattura scomposta del polso sinistro e un obbligato conseguente strascico giudiziario, ha dovuto essere visitata da un perito medico, nominato dal tribunale. Ma la sorpresa maggiore è stata quando, invece di essere visitata da un ortopedico, a visitarla è stato un “diabetologo” e ha scoperto che non era un errore ma un’anomalia prevista dalla legge.