La squallida intesa tra politica e sindacato
Dopo il caso Palamara, che ha portato allo scoperto le pratiche amorali ed antigiuridiche imperversanti nella Magistratura italiana, a dire come stanno le cose nella scuola del Belpaese è stato un altro campione: il Ministro della Pubblica Istruzione del Governo in carica, l’onorevole Lucia Azzolina. Ascesa alla guida del Dicastero di viale Trastevere esattamente un secolo dopo che sulla stessa poltrona sedette Benedetto Croce in un governo guidato da Giovanni Giolitti, l’attuale titolare della scuola italiana ha sostanzialmente affermato che in quel Ministero non è possibile muovere foglia se le organizzazioni sindacali non lo vogliano. La cosa era abbastanza nota agli addetti ai lavori, ma non ricordo che ministri in carica lo avessero dichiarato così apertamente. E dato che l’Azzolina dal sindacato proviene, le sue affermazioni acquistano un significato di particolare rilievo, oltre a segnalare che i suoi giorni alla guida della pubblica istruzione sembrerebbero ormai al termine. Nel volgere di pochi mesi – e grazie a due personalità che solo nel nostro Paese avrebbero potuto acquisire i ruoli di spicco che hanno raggiunto nei rispettivi ambienti – sono venuti fuori e con forza nodi strutturali dell’organizzazione sociale. Sì, perché l’istruzione pubblica e la giurisdizione costituiscono, in ogni ben concepita collettività, assi portanti nel formare quel che si definisce cittadino e, rispettivamente, nel conservarne le condotte in linea con valori cooperativi e produttivi di benessere. Un Paese che non fosse ormai del tutto sordo alle esigenze della socialità coglierebbe queste non comuni occasioni d’emersione della realtà dal fondo melmoso e corporativo in cui è stata per decenni coltivata, per reagirvi, non solo attraverso dibattito pubblico, ma anche mediante opportune investigazioni di livello parlamentare, così da acquisire nelle debite forme dati ineluttabili, quei dati che imporrebbero d’intervenire senza remore con misure radicali ed impietose: e si ristabilirebbero in tal modo condizioni di civiltà giuridica e morale, in segmenti dell’organizzazione sociale irrinunciabili, sempre che si creda nel futuro della Nazione. Ed invece, a parte qualche rara seppur autorevole voce, anche per la Scuola, così come sta avvenendo per il disastro della Magistratura italiana – della riforma proposta dall’ineffabile Ministro Bonafede non c’è neanche ragione di parlare – tutto si lasca correre, tutto si mantiene nello stato in cui si trova: per la semplice ragione che nessuno ha il coraggio di far causa con gli interessi generali ed ognuno – ognuno dei mediocri politicanti del momento – preferisce associarsi a quelli corporativi, già forti e ben costituiti, sicuro così di mantenersi a galla, non a lungo, ma almeno per il tempo necessario a mettere al riparo il proprio personale futuro. Cosa vuol dire che nella scuola il sindacato fa il bello ed il cattivo tempo e si oppone a qualsiasi seria riforma organizzativa? Ricordate la “buona scuola” del Governo Renzi che avrebbe dovuto risolvere il problema del precariato tra i docenti? Bene: siamo punto e daccapo. Una quantità enorme di precari, che verranno trasformati, come da decenni, in docenti titolari, senza concorso o sulla base di concorsi farsa. Perché questo accade ormai dagli anni Settanta senza posa? Non sempre è stato così. Sino ad allora, professori di ruolo nella scuola elementare, media e media superiore s’entrava solo sulla scorta di distinti concorsi a cattedra, nei quali prevalevano i migliori. E per raggiungere l’ambita funzione di professore liceale – una funzione che rivaleggiava in prestigio con quella del professore universitario – era necessario superare difficili, molto difficili concorsi, conseguendo la media dell’otto nelle numerose materie costituenti la prova. Oggi, quando si fa il concorso, ed è già un caso, si devono svolgere dei compitini nozionistici d’una paginetta scarsa, sulla base dei quali, e non si sa come, si valutano quelli che dovrebbero formare competenze e coscienze dei futuri cittadini. Ed il più delle volte si tratta di vere e proprie messe in scena, riservate a precari di medio-lungo periodo, che così vedono, in una sorta di gioco di prestigio, trasformata la loro condizione dall’incertezza dell’incarico annuale alla certezza del definitivo ‘posto’ pubblico. Senza aver mai conosciuto cosa significhi realmente lo studio e dunque – per stretta conseguenza – senza nemmeno sospettare cosa significhi formare una giovane mente ed adusarla ai valori del serio impegno, della responsabilità morale, della convinta condivisione del vivere solidale e rispettoso di tutto quanto fa Comunità. Perché – questo dovrebbe essere chiaro – difficilmente ci sarebbe il degrado e l’irresponsabile violazione d’ogni regola civile – anche di quelle che dovrebbero servire a preservare la propria e l’altrui salute – se la Scuola, svolgendo il proprio compito, avesse trasmesso un qualche valore alle generazioni che almeno da un cinquantennio si susseguono nelle sgangherate aule italiane. Ma perché questo potesse accadere, in cattedra avrebbero dovuto seguirsi generazioni di ben formati docenti; invece, la squallida intesa tra politica e sindacato, ha fatto sì che i valori ai quali la selezione degli insegnanti è stata improntata, sono stati quelli della negoziazione, delle sanatorie, delle interminate leggi speciali, dei ricorsi davanti alla giustizia amministrativa, alimentati appunto da quella particolaristica mole di norme ad personam, nella cui gestione i nostrani sindacati sono irraggiungibili maestri (ma maestri solo in questo), insomma una selezione svoltasi con le armi del confronto sindacale e non al calor della competenza e della professionalità. Cosa possa produrre un tale indigeribile composto ce lo può dire – tra l’altro, e per rimanere al tema – il livello di moralità di parte importante della Magistratura italiana.