La suddivisione degli spazi tra politica e morale
Giusto per occuparsi di qualcosa di leggero, le vacanze di Giuseppe Conte leader dei pentastellati nel pentastellato Grand Hotel Savoia di Cortina d’Ampezzo sembrerebbero l’argomento appropriato. Ed in effetti, lo sono e lo sono anche per qualche riflessione sulla suddivisione degli spazi tra politica e morale. distribuiti lungo lo Stivale: se poi avesse anche pensato di farla franca, cioè di passare inosservato, lui accompagnato da scorta e tra gli uomini politici più in vista della Repubblica, beh il giudizio sul suo acume salirebbe di parecchie tacche. Ma, intelligenza a parte, restano due sfere da sempre inestricate: la politica e la morale, l’una riguardante l’ambito pubblico dell’uomo sociale, l’altra quello dei criteri interiori di condotta e del rapporto che hanno con alcuni parametri fondamentali dell’agire, maturatisi nell’ambiente culturale in cui si ci forma e vive. Nell’ambito della politica – intendendosi per questo, il contesto di uomini, strutture sociali ed economiche, mondo dell’informazione, insomma la comunità dei cittadini con le relative formazioni cooperative – il Conte s’è distinto per incapacità di previsione. Ha offerto su vassoi non d’argento, bensì di platino con gemme preziose incastonate, l’opportunità di sbeffeggiarlo. La possibilità banale e di facilissima beva di renderlo odioso, ridicolo, contraddittorio, opportunista, quasi anche approfittatore. Chi è il paladino dei poveri e chiede agli italiani di trasferire sette - otto miliardi di euro della fiscalità generale al sussidio di soggetti privi di reddito, difficilmente può ricomporre in una coerente figura il trascorrere la fine dell’anno e forse non solo quella, in uno dei più esclusivi resort del territorio nazionale: è semplicemente antiestetico. Quando poi, per giustificare l’inciampo, chiamiamolo così, si fa circolare la voce che egli colà si sia recato fruendo dell’ospitalità della ricca consorte, diciamo che le cose difficilmente miglioreranno nel giudizio comune. E questo attiene alla scaltrezza politica, vale a dire alla capacità non proprio fenomenale per l’uomo pubblico di prevedere le conseguenze delle proprie azioni: ci sarà pure una qualche ragione, credo, perché le abituali vacanze (estive) a Cortina di Giulio Andreotti non hanno mai suscitato alcuno scandalo, benché la italica Magistratura di lui si sia più che abbondantemente occupata. Il problema fondamentale, se così può dirsi in simili cose, attiene alla moralità dell’uomo Conte. È vero, la morale non è il criterio per la valutazione del politico. Ma questo è verissimo quando si discetti delle scelte di governo, delle posizioni pubbliche che assume, degli obiettivi che si prefigge. Noi valutiamo il leader, colui che indirizza una formazione politica ed i suoi adepti verso certi obiettivi – come ad esempio il capo di Governo che guidi una collettività indicandole i sui fondamentali interessi – dai risultati che è in grado di raggiungere. Abbiamo sempre giudicato buoni politici – e non so se facendo bene – anche inarrivabili sanguinari (si pensi ad un Cesare, un Augusto, un Carlo V o un Lenin), perché entità che si sono distinte per l’attitudine a realizzare importanti risultati, a modificare la realtà, a trasformare i propri Paesi, offrendo opportunità in precedenza assenti. Conquistatori senza scrupoli – si pensi ad un Napoleone – sono rimasti nella storia sotto l’aura della genialità. Certo non hanno brillato per eticità, nel senso che i criteri ai quali è stata ispirata la loro azione, difficilmente avrebbero potuto ergersi a kantiane regole universali. Ma la moralità individuale è diversa cosa ed è richiesta anche al politico, perché del politico è anzitutto la capacità d’esser d’esempio, di mostrare coerenza, i non farsi scoprire a praticar cose diverse da quelle che dice di perseguire. Orbene una delle fondamentali basi del comportamento morale è la coerenza, il volere per sé quel che si vuole per gli altri, l’avere una condotta solidale e partecipe delle altrui esigenze. Conte ha deciso, e l’ha deciso lui non altri, d’ergersi a simbolo – a niente di meno che a simbolo, non è scherzo dappoco – e difensore (ricordate quella aurorale aspirazione, d’essere ‘avvocato del popolo’) della parte più debole del Paese. Dichiara di difendere il reddito di cittadinanza (pari a circa 1/5 di quello che si lascia per una notte all’Hotel Savoia). E si esibisce nel farlo d’essere paladino contro tutto e contro tutti, perché vuole l’Italia paese solidale in cui le ingiustizie vanno debellate ed ognuno ha diritto alla propria dignità di persona. Ha battagliato durante la campagna elettorale, infiammando le periferie più sofferenti e va creando in giro non pochi problemi d’ordine pubblico, addirittura sfidando altri uomini politici a recarsi come fa lui nelle medesime plaghe del Paese, esponendo le proprie ragioni circa l’abolizione del reddito di cittadinanza. Dice che questo è il suo sentimento politico, che egli avverte vicinanza per i diseredati ed intende battersi per loro. Si dirà: e cosa c’entra questo col fatto che egli – magari a spese della facoltosa compagna – trascorra il proprio meritato riposo in un luogo da nababbi? Non è libero nel privato di fare ciò che vuole? È libero e come, si tratta di questione del tutto estranea al diritto, si tratta di questione morale, appunto. La persona, quella mentalmente sana e genuina, è un tutto che interagisce, in cui le contraddizioni costituiscono sintomo. Predicare solidarietà con i più umili e praticare nel contempo sfarzo è grave incoerenza, che sul piano morale non torna, perché la moralità vuole armonia che mostra interiorità seria: e non è affatto armonia criticare gli egoismi della società liberal-individualista e praticarne le strutture di privilegio nel modo più estremo. Ne va della credibilità dell’uomo e dunque anche del politico, induce a pensare che si strumentalizzino le altrui debolezze per coltivare vantaggi propri: insomma, quel che si chiama populismo.