L’autonomia differenziata può minare l’unità nazionale
Quello della autonomia differenziata non è solo un tema di stretta attualità, ma è il tema che occuperà una centralità nel dibattito politico nei prossimi mesi e che rischia di modificare profondamente non solo l’assetto istituzionale del Paese ma anche la politica. L’inizio del processo di autonomia regionale si può tranquillamente far risalire al 1999 quando il lavoro della commissione bicamerale viene tradotto in una proposta di legge che viene approvata nel marzo 2001 quando a Palazzo Chigi c’è Giuliano Amato che era succeduto a Massimo D’Alema e a Romano Prodi. La riforma nasce quindi dal centrosinistra, in un periodo in cui il dibattito sul rapporto fra Stato e regioni è particolarmente acceso, che in questo modo cerca di attutire le spinte federaliste dell’allora Lega Nord e spingere la formazione di Bossi nell’alveo dei partiti di centrosinistra. Riformato così il Capo V parte seconda della Costituzione italiana, viene spianata la strada a questa forma di decentramento al punto che rispetto all’inizio di questa storia si è progressivamente allargata la platea delle Regioni interessate alla differenziazione. Oggi, infatti, l’autonomia differenziata assume fa parte delle rivendicazioni non solo delle Regioni del Nord, ma esteso anche ad altre Regioni che, vedono nel regionalismo spinto un possibile rilancio del sistema autonomistico e un maggiore potere dei presidenti. Per Giani, presidente della Toscana, è “un atto di giustizia” mentre per Zaia “è la cura contro la malagestio” e perfino De Luca, impegnato per ottenere il terzo mandato, intravede la possibilità di “obiettivi estremamente importanti di decentramento e di sburocratizzazione” che in soldoni significa più potere nelle sue mani. Al di là di ogni cosa, è assolutamente evidente, in ballo ci sono i soldi, e cioè la possibilità di ottenere maggiori risorse attraverso il sistema di finanziamento dell’autonomia differenziata che dovrebbe essere coerente con quanto previsto dall’articolo 119 Costituzione e in particolare con la compartecipazione al gettito di tributi erariali riferibile al territorio regionale. Un elemento di criticità riguarda la fissazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale (LEP), ma anche questo potrebbe essere un rimedio inefficace per le regioni più povere se i Lep non fossero accompagnati dalle risorse necessarie per garantire una qualità dei servizi omogenea su tutto il territorio. Del resto, in questi anni, anche la clausola, introdotta in sede di conversione del decreto-legge n. 243/2016 e s.m.i nella legge n. 18/2017, che prevede che le Amministrazioni centrali dello Stato debbano destinare alle regioni del Mezzogiorno il 34% delle risorse ordinarie è rimasta spesso inapplicata e, quindi, perché bisognerebbe credere che insieme ai Lep verranno poi trasferite le risorse necessarie? Una delle conseguenze che vedo in questo processo è che il dibattito finirà per trasformare anche la politica italiana nella quale non ci sarà più una sinistra ed una destra che si confronteranno, categorie che svolgono oggi una funzione aggregativa sulla base di concetti, valori ed idee politiche, ma un confronto che si sposterà sul versante della difesa dei territori in cui uomini e donne che fino a ieri militavano in schieramenti diversi potrebbero trovarsi dalla stessa parte per difendere gli interessi della propria gente. Per questo motivo trovo profondamente sbagliato che alcuni uomini di sinistra meridionali trovano in questo dibattito una occasione per attaccare il governo che finisce per fare perdere di vista il vero obiettivo da raggiungere che è quello di impedire che si possa mettere in campo un processo che possa ulteriormente creare diseguaglianze territoriali mettendo in discussione seriamente i diritti dei cittadini che abitano nelle regioni più povere. Proprio perché ritengo questa battaglia comune a tutti i cittadini ho sottoscritto la proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare che tende a modificare gli art. 116.3 e 117 della Costituzione e che punta ad introdurre alcuni correttivi che vanno nella direzione della difesa dello Stato unitario oltre che a ridare al Parlamento centralità su questo tema proprio laddove finora le forze politiche non si sono mai potute esprimere. Ho molta fiducia in Giorgia Meloni e sono sicuro che saprà respingere tutti quei tentativi, che pure ci saranno da parte degli alleati di governo, di approvare una riforma che possa minare l’unità nazionale e che possa negare a vaste aree del territorio nazionale una prospettiva di sviluppo.