Le contaminazioni del nuovo linguaggio
C’è ancora qualcuno che, in questo Paese, fa riflettere e meditare. Spostando l’asse del suo ragionamento non sui migranti, non sull’Inter tornata in testa alla classifica, non sulla vicenda dei Casamonica e sui vari sconfinamenti che l’hanno accompagnata ma, semplicemente sugli usi e i costumi della lingua italiana. Non è un tema secondario, non è un problema marginale. È una realtà che muta, giorno dopo giorno, sotto i nostri occhi e che coinvolge certamente la scuola e l’ università (quanti ventenni sanno scrivere oggi correttamente una lettera?), la radio e tv ( capaci di proporre un linguaggio che sfodera un modesto livello medio di qualità e tecnicismi che comprendono solo in pochi), la famiglia e le frequentazioni quotidiane (dove spesso il dialetto domina ancora come padrone incontrastato ed anzi, ritrova oggi il fascino delle sue radici culturali ). La riflessione arriva dal magico e straordinario Umberto Eco che, attraverso una “lectio magistralis“ titolata “Tu, Lei, la memoria e l’insulto“, come sempre, disegna un percorso articolato, in grado di generare mille altre strade di approfondimento. È un’esplorazione che parte dal Tu della Roma antica, sovrapposto poi al Vos medioevale e al Lei dedicato a soggetti cui, nel tempo, rappresentare un gran rispetto. Ma sa toccare anche i tasti della modernità, evocando come l’invasione degli extracomunitari abbia prodotto il dilagarsi del tu, lo sciorinarsi di verbi al puro infinito, in sostanza, un’alfabetizzazione di modesta qualità. Una riflessione interessante che, indiscutibilmente, chiama in gioco anche gli italiani, il loro rapporto con la lingua, la difficoltà a possedere un campionario vario e articolato di verbi, aggettivi, sostantivi. Si tratta di temi che, oggettivamente, interessano poco i ragazzi di oggi. Tutti sono impegnati ad inscatolare i propri pensieri nei 140 caratteri di Facebook oppure nella strana crasi degli sms che, a furia di limare e di tagliare, hanno prodotto una nuova lingua di risulta che convive, soprattutto, con lettere iniziali e numeri, materiale metropolitano di bassa qualità. La realtà di una lingua dinamica che vede rifiorire e scomparire aggettivi ed avverbi, che propone il fascino di neologismi tutti da scandagliare, che infarcisce la discussione di francesismi, inglesismi e via parlando è tema delicatissimo ed importante. Anche perché il successo di alcuni di questi elementi non è tanto legato a vocabolari come la Zanichelli o dizionari come la Treccani ma è fatalmente vincolato agli umori della gente, alla capacità di far entrare quella parola, quel verbo nella testa degli utenti, come un pensiero, come una canzone, perché si diffonda allegramente in una sorta di festoso contagio. O, magari, parole che impongono la loro presenza dietro l’urgenza di una necessità della cronaca, di un obbligo, di una richiesta. Termini come esodati, califfato, Isis, magari anche migranti erano, alcuni anni fa, letteralmente sconosciuti. Ma anche palinsesto, hashtag, follower, twittare, smartphone erano ancora inabissati nell’interesse di pochi intimi. È un tema delicato, fascinoso, tutto da approfondire e meditare. E noi stessi siamo inscatolati nei rigidi spazi di un qualsiasi editoriale. Ma, prima o poi, bisognerà trovare il tempo per scrivere qualche organica, ampia riflessione su un argomento che, accanto al suo modernismo, può tranquillamente riportarci alla ricerca del tempo perduto.