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Le logiche “mafiose” della Magistratura

Opinionista: 

Non si può dire che il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella abbia emesso proprio il ruggito del leone quando s’è finalmente pronunciato – dopo il fiume di fango che sta ricoprendo la Magistratura per i suoi propri malestri – su quanto è accaduto nell’Ordine giudiziario. È accaduto, sta accadendo, e continua imperturbabilmente ad accadere. Basti pensare all’ultima nomina di serio rilievo – il posto di Procuratore della (povera) Repubblica di Perugia, quella competente ad indagare sul caso Palamara – realizzata in favore del Cantone tra maggioranze, minoranze, e persino astensioni, tutte ben ripartite tra ben marcate correnti e componenti del Consiglio Superiore. Vicenda lì a testimoniare che nulla, presumibilmente, è mutato. Quel che s’è venuto a sapere in questi mesi, lo sapevano già tutti, e da sempre: in Magistratura v’è un serio e fortemente strutturato traffico d’influenze che fa le nomine più importanti (ma un po’ tutte, invero): le quali prescindono da meriti ed attitudini – che possono esserci anche, ma senza che facciano la differenza – e che indirizzano le scelte per la copertura di posti, seriamente influenti sulla vita dei cittadini e delle istituzioni. Cosicché si viene designati per capitanare funzioni – che consentono poi d’indirizzare indagini, governare polizia giudiziaria, far fortune o disgrazie di ciascuno di noi e della collettività nel suo insieme – si viene designati, non in ragione di più o meno obiettivi meriti, ma perché i maggiorenti correntizi, nel perseguimento delle loro tutt’alto che trasparenti politiche, decidono che così vada disposto. Ne eravamo già tutti coscienti, ma oggi è venuto fuori in modo limpido ed inesorabile, con discredito completo delle istituzioni giudiziarie tutte, ed in modo particolare del Consiglio Superiore in carica. Il quale, ad ogni nuova designazione d’un qualche rilievo che compie e compirà, sarà sempre ed a buona ragione sospettato di non aver guardato ad altro che a logiche d’appartenenza che vari ed autorevoli giudici ormai non esitano a definire “mafiose”. Direi che non è poco per la giurisdizione di un preteso stato di diritto. Orbene, il Presidente della nostra sciagurata Repubblica, che della Magistratura è posto a capo – e che proviene dall’isola per antonomasia e storia rappresentativa di quel terribile fenomeno criminale – ha detto, nel barocco lessico quirinalizio, che lui più di tanto non può fare: in sostanza, che non può andare oltre la vibrata protesta contro l’andazzo indecente dell’ordine giudiziario. Ed ha sì lamentato la “modestia etica” in esso diffusa – che però riguarderebbe a suo dire pochi (Palamara, dell’Anm è stato appena presidente) – però dicendo che Egli non può andar oltre: non può essere “tirato per la giacchetta”, come con trita e volgare espressione s’usa esprimere l’idiotissimo concetto per il quale il Presidente della Repubblica non sarebbe soggetto dell’arena politica, manco fosse nella più alta Magistratura dello Stato per discendenza divina ed a celebrar messa. C’è però un piccolo ma ingombrante particolare: che l’articolo 31 della legge 24 marzo 1958 ° 195 attribuisce al sunnominato Presidente della Repubblica un potere tutt’affatto politico: sentiti i Presidenti di Camera e Senato – absit iniuria verbis – egli può sciogliere il Consiglio Superiore della Magistratura “qualora ne sia impossibile il funzionamento”. Si tratta di un atto politico rimesso interamente alla sua responsabilità – deve solo sentire i Presidenti delle Camere – riassunto in un sintagma (l’impossibilità di funzionamento) che, per chi frequenta un po’ i meandri delle Pandette, sa bene possa significare molte cose: e che, quando sta lì ad attribuire un potere puramente imputato alla responsabilità politica del Presidente della Repubblica, ha un campo semantico tanto ampio, quanto l’è la sovranità dello Stato. Orbene, dopo quel poco poco che s’è visto e letto sul Consiglio Superiore, con coinvolgimenti nell’attuale e nella precedente consiliatura – quando n’era componente e protagonista (a quel che abbiamo appreso) anche l’attuale Presidente del Senato – c’è poco da scherzare: ritenere che senza gravissimo danno per la credibilità, la legittimazione e l’autorevolezza della Magistratura l’organismo in carica possa continuare a funzionare, è una valutazione la quale non è nella legge ma s’imputa tutt’intera alla responsabilità del Presidente della Repubblica, primo Magistrato dello Stato. Non penso affatto sia esatto che la legge impedisca a Sergio Mattarella d’intervenire con tutta l’autorevolezza che la prima Magistratura dello Stato gli assegna a tutela della tenuta delle istituzioni: dunque della loro credibilità simbolica, della loro carismaticità. È una scelta che il Presidente compie interamente nell’ambito della sua responsabilità politica ed istituzionale: una scelta – quella da lui compiuta – che invece trasmette alla comunità italiana, già per sua natura (e storia) poco avvezza a confidare nelle istituzioni, il senso dell’impotenza. Il senso cioè che si possa fare qualsivoglia cosa, senza che il sistema sia in grado di reagire, se non a parole, spesso reboanti e quindi vuote, prive di forza performativa: detto semplicemente, parole che restano là senza produrre alcun effetto. Trasmettendo il messaggio dell’impotenza dello Stato, affidato a logiche che di legale – lo Stato che di legalità dovrebbe vivere grazie soprattutto ad una vigilante ed autorevole Giurisdizione – nulla proprio hanno. Del resto, nelle dichiarazioni del Presidente della Repubblica figura anche un passaggio assai trascurato dall’assai poco agguerrita stampa nostrana: il Presidente addirittura teme che la richiesta di riforme dell’Ordine giudiziario possa nascondere il malcelato desiderio di ridurne l’autonomia. Spontaneo vien d’osservare: se questo poco ha prodotto l’autonomia – in realtà l’ottundente autoreferenzialità di quell’ambiente capace di creare tanto ammaloramento istituzionale – forse non farà un gran male se, con forme adeguate, essa fosse meglio definita. Ma è ben evidente che nel nostro Paese, la malattia viene spesso scambiata per lo stato di salute come in un’aggiornata e capovolta commedia del Molière.