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Le poche idee di Letta: qual è la sua strategia?

Opinionista: 

Cercasi Enrico Letta disperatamente. C’era una volta chi diceva che con lui il Pd avrebbe riacquistato il suo profilo riformista. Che un ex democristiano come lui avrebbe riportato il partito verso il centro. Che sempre lui, proveniente non dalle Frattocchie ma dai circoli pensanti facenti capo a Beniamino Andreatta, avrebbe certamente riequilibrato le spinte a sinistra che avevano caratterizzato la segreteria di Nicola Zingaretti e l’esito nefasto del governo Conte due. I fatti, però, si sono incaricati di smentire queste previsioni. Se Zingaretti si era dimesso dichiarando di vergognarsi del suo partito, Letta sembra sempre più preoccupato che il suo partito non si vergogni di lui. Come se avesse un complesso d’inferiorità. Lo conferma l’atteggiamento rinunciatario fin qui tenuto sul Quirinale. Il segretario non ha iniziativa né strategia, è ridotto a giocare di rimessa per non acuire le divisioni nel suo stesso partito e le difficoltà degli alleati. Spera che alla fine ci pensi Draghi a sbarrare la strada a un uomo del centrodestra, togliendogli così le castagne dal fuoco. D’altra parte, la storia di questi undici mesi alla guida del Nazareno parla chiaro: ogni volta che ha dovuto fare una scelta, l’ex premier ha sempre svoltato a sinistra. Contrariamente a quanto ci si sarebbe atteso. È accaduto fin dal primo giorno, quando nel suo discorso d’insediamento da leader appena eletto - senza le mitiche primarie, senza congresso e soprattutto senza alcun dibattito - Letta annunciò urbi et orbi le prime due proposte surreali del suo mandato: il diritto di voto ai 16enni e la cittadinanza facile agli immigrati, promettendo che sarebbero diventate realtà entro la legislatura. Talmente realtà che di quelle due bandierine rosse è oggi sbiadito finanche il ricordo. Per tacere del fatto che alla segreteria l’eterno “enfant prodige” ci giunse con un’assemblea bulgara, sublimazione di quel metodo verticistico mille volte criticato. A patto - ovviamente - che a utilizzarlo fossero gli avversari. L’unico esponente del Pd ad essere diventato premier con i voti di Berlusconi (che nel 2013 evidentemente gli sembrarono molto meno «divisivi» di adesso) ha poi proseguito facendo fuori i presidenti dei gruppi parlamentari del suo partito solo perché “colpevoli” di essere maschi. Ma il suo migliore autogol è stato il ddl Zan. Pur di correre appresso alla sinistra del suo partito, alla Cgil, all’Arcigay e a tutto l’armamentario che fa riferimento alla vecchia Ditta targata PciPds-Ds, Letta non ha esitato a sacrificare la legge anti-omofobia sull’altare di un massimalismo degno di peggior causa. Infine ha lanciato il Nuovo Ulivo, versione riveduta e poco corretta della vecchia armata Brancaleone prodiana, aggravata dal matrimonio con i giustizialisti a Cinque Stelle. Non contento, per agevolare l’approdo, il leader Dem si è finanche speso per l’ingresso degli ex antieuropeisti grillini nel gruppo socialista europeo a Strasburgo. Risultato: non se n’è più saputo nulla. Tanto dev’essere stato l’imbarazzo degli uni e degli altri che alla fine si è preferito lasciar cadere la cosa. L’unico raggio di luce sono state le Amministrative, vinte però soprattutto grazie a un centrodestra irriconoscibile, diviso e incapace di proporre candidati credibili. Si potrebbe continuare, ma l’annuncio di Massimo D’Alema di voler tornare nel Pd basta e avanza a testimoniare l’avventa riconquista del Nazareno da parte della Ditta. D’altra parte ormai che differenza c’è tra Bersani e Letta, tra D’Alema e Bettini o tra Speranza e Provenzano? Nessuna. Dunque perché Articolo Uno non dovrebbe poter tornare nel Pd? È il fallimento definitivo del disegno di unire i riformisti delle aree socialista, liberale e cattolica in un soggetto a vocazione maggioritaria. Cioè la bancarotta del Pd stesso. Che a certificarlo sia un segretario post-dc la dice lunga sulle idee rimaste da quelle parti. Poche e ben confuse. Anche sul Quirinale.