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Le strade della cronaca e l’eroico giornalismo

Opinionista: 

Una volta il giornalismo, a Napoli, era il riflesso di due testate, “Roma” e “Il Mattino”. Non c’erano televisioni locali, pay per view, internet, piattaforme web. Tutto si raccontava attraverso i quotidiani e le loro edizioni territoriali. Era, direi in tutta Italia, un mondo romantico e picaresco, con il piombo in tipografia e le rotative che ti facevano compagnia, fino a tarda notte. Poi, tutto è cambiato ed i cronisti hanno preso altre strade, in tutti i sensi. L’ultima novità, in questo senso, nel solco del giornalismo statunitense, propone, l’ inviato on the road, l’uomo che trasmette direttamente accanto al luogo di cui si discute in trasmissione. Così, fuori alla Camera, al Senato, a Palazzo Chigi, è tutto un fiorire di telecamere, tanto di giorno quanto di notte. E che importa se i Palazzi sono chiusi da ore e le uniche presenze sono legate a qualche poliziotto di sorveglianza? Esser lì, presidiare, è il nuovo imperativo mediatico. Ma non è solo la cronaca politica ad aver imboccato il nuovo corso. In un’Italia che realizza, ormai, centinaia di talk-show legati al giallo di Avetrana, alla morte della povera Yara Gambirasio, alla scomparsa di Roberta Ragusa, ai delitti ed alle pene, la curiosità morbosa della gente si trasforma progressivamente in vouyerismo giornalistico. E, spesso, piccoli paesi di provincia cambiano la loro identità, mutano le loro caratteristiche, assediati, tra l’ altro, da un nuovo, incredibile turismo necroforo che affronta ore di viaggio per comprendere, per capire, per verificare ogni cosa sui luoghi che hanno visto tante volte in televisione. Avetrana, in questo senso, ha rappresentato, probabilmente, una svolta nel giornalismo italiano. Una piccola realtà del Mezzogiorno più profondo, con poco più di 7mila abitanti, si è ritrovata improvvisamente invasa da centinaia di inviati chiamati a spiegare gli intrecci legati alla morte di Sarah Scazzi. Ecco, quindi, un alveare di microfoni fuori al cancello della famiglia Misseri, accanto al piccolo cimitero del paese, addirittura vicino alla tomba della povera ragazza. Una costante spettacolarizzazione dell’evento al quale quella piccola realtà ha partecipato in un sabba collettivo, dove tutti volevano apparire in tv, dove tutti i giovani sembravano aver qualcosa da dire e da rivelare di fronte ad una telecamera compiacente. E i cronisti, così, son finiti, a trasmettere, anche dopo anni, sotto la neve, dal campo dove è stata uccisa la Gambirasio o fuori dal villino del marito di Roberta Ragusa, dovunque ci sia odore di un delitto e di un assassino, oppure il fascino di una qualsiasi notizia. Osservavo con stupore, domenica scorsa, un cronista sportivo piazzato con le telecamere fuori dalla villa di Arcore del presidente del Milan per sapere se la panchina del povero Inzaghi stesse o meno per saltare. Ovviamente, Berlusconi aveva altri problemi per la testa: il voto sulle riforme, l’intesa con la Lega, la ricostruzione del centrodestra. Inzaghi non era in agenda e, tra l'altro, all’occorrenza, ogni cosa sarebbe stata eventualmente ufficializzata da un comunicato stampa. E, invece, il giornalista era lì, sul ciglio della strada, senza nessuno che gli passasse una notizia, costretto ad inventarsi qualcosa, tra le nebbie della Brianza che lo obbligavano, progressivamente, a vanificarsi nel video. Esposto alle intemperie di una cultura calcistica da marciapiede, tornata involontariamente a farsi eroica.