Lo scontro armato tra culture e religioni
Tra le tante analisi e i tanti interventi che si sono registrati in questi frenetici e drammatici momenti dell’acuirsi della crisi libica e delle minacce di guerra dell’Isis a pochi passi da casa nostra, ne discuto due che – per fortunata coincidenza – sono apparsi lo stesso giorno sul “Corriere della Sera”. Mi riferisco a un articolo di fondo di Sabino Cassese e all’anticipazione dei passaggi salienti di un saggio di Papa Bergoglio sul pluralismo, scritto nel 1984 e che esce ora in traduzione italiana su “La Civiltà Cattolica”. Le puntuali osservazioni di Cassese muovono da una irrefutabile costatazione: l’inadeguatezza delle vecchie regole della politica internazionale dinanzi ai conflitti moderni; una inadeguatezza che deve tra l’altro misurarsi su scale diverse e contesti differenziati che non possono essere equiparati, pena l’indicazione di soluzioni inefficaci e improprie. Così se il conflitto in Ucraina vede ancora sul campo entità statali definite, quello libico e iracheno si svolge dentro una realtà contrassegnata dall’assenza di Stati o al massimo dalla loro fragilità e debolezza. Anche le forme del conflitto armato si diversificano, giacché allo scontro nel cuore dell’Europa partecipano eserciti regolari o comunque tradizionalmente organizzati, mentre in Libia e in Irak prevale la strategia terroristica non solo purtroppo reale ma anche efficacemente mediatica. A questo poi si aggiunge il non mai chiarito limite della politica internazionale dell’ultimo mezzo secolo e cioè il ruolo delle Nazioni Unite costantemente frenato dal timore degli Stati nazionali di perdere spazi di sovranità e dagli effetti paralizzanti dei veti in sede di consiglio di sicurezza. Insomma il vero problema che acutamente Cassese individua – e che è all’origine di un pericoloso immobilismo e di un altrettanto pernicioso attendismo – è quello di guerre anomale che nascono e si combattono in uno spazio globale senza che vi sia un ordine globale capace di fronteggiarle. Ciò che poi in questo contesto appare come un serio elemento di debolezza è l’insignificanza per non dire l’inesistenza di una politica comune europea, testimoniate per ultimo dal fatto che la crisi dell’Ucraina è stata sia pur precariamente risolta dalle diplomazie statali e non dall’Unione europea. Vi è poi un ultimo, ma non ultimo come importanza, elemento di contraddizione che ritorna periodicamente a dividere le forze politiche italiane. E’ avvenuto così durante la guerra nei Balcani, in Irak e poi in Libia. Cassese si riferisce all’art.11 della Costituzione in cui si afferma che l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali. Ma chi decide ora quale è il confine tra guerre e operazioni di polizia internazionale contro il terrorismo fattosi Stato? Non so fino a che punto alcune soluzioni proposte dall’illustre costituzionalista possano essere efficaci: l’Onu come garante delle formazioni statali deboli così da non farle degenerare e il rafforzamento militare dell’Unione Europea anche con compiti di polizia internazionale. Ho i miei dubbi che il solo interventismo di tipo militare riesca a venire a capo del groviglio di situazioni e contraddizioni. Il problema è anche e soprattutto storico (nel senso di un conflitto che è nato nelle storie conflittuali delle due sponde del Mediterraneo con responsabilità gravi dell’imperialismo e delle sue trasfigurazioni contemporanee, ma con enormi colpe anche delle classi politiche arabe rivelatesi spesso autoritarie e oligarchiche) ed è ancor più culturale da quando non si è capito subito il senso della svolta teocratica nell’Iran di Khomeini e non si è percepito il pericolo dello sfrangiarsi fratricida del tessuto religioso islamico tra le diverse fazioni sciite e sunnite. Questo naturalmente non significa che bisogna mettere da parte i contenuti e le proposte che abbiano a fondamento il dialogo interculturale e il confronto interreligioso, avendo però la consapevolezza che così come sarebbe perdente la sola opzione militare, altrettanto lo sarebbe la sola opzione culturale che, tra l’altro, è stata messa in crisi proprio dal fallimento delle cosiddette “primavere arabe”. Da questo punto di vista una lezione di “realismo” viene dalle parole di Papa Bergoglio che in un saggio scritto quaranta anni or sono già centrava l’essenza della questione oggi più che mai sul tappeto: è possibile sostenere una prospettiva pluralistica (che è poi l’essenza della visione democratica occidentale) dentro così compatte tradizioni religiose e teologiche, ognuna volta a teorizzare e sostenere l’unità e la supremazia della propria confessione di fede? L’interrogativo su cui l’allora Rettore del Collegio Maximo di San José in Argentina rifletteva nel suo scritto resta, ancor più oggi, aperto e insoluto e, tuttavia, su un punto mi pare ancora lucidamente chiarificatore: il pluralismo deve caratterizzare le diverse prospettive teologiche, ma esso non deve significare abbandono della ricerca di unità nella propria fede e dell’appartenenza alla propria Chiesa. Equilibrio difficile e non sempre mantenuto, anzi proprio quando esso è saltato, facendo diventare le religioni ideologie e supporto di teocrazie, ha finito col prevalere lo scontro drammatico tra culture e religioni l’una contro l’altra armate.
GIUSEPPE CACCIATORE