Ma rottamare Renzi non è una politica
Matteo Renzi non getta la spugna e sfida in campo aperto (preparando la convocazione del congresso del partito) i suoi oppositori che reagiscono accelerando i tempi di una scissione che sembra essere sempre più probabile. E se Renzi esce vincitore (in direzione) del primo round della contesa è facile prevedere che la telenovela sia destinata a continuare per chissà quanto tempo ancora, a tutto danno di un partito divorato da una sorta di cupio dissolvi e che,dopo aver ottenuto, meno di tre anni fa (elezioni europee del maggio 2014) oltre il 40% dei consensi, si è impegnato, con tenacia degna di miglior causa, in una riuscita opera di autodistruzione. Ed è fuor di dubbio che le vicende che hanno determinato questa inverosimile parabola discendente abbiano come protagonista, nel bene e nel male, Matteo Renzi. Non siamo i difensori d’ufficio dell’ex presidente del Consiglio. È una funzione che non ci compete. Ma, da osservatori per quanto possibile imparziali, di quel che accade intorno a noi, non possiamo non rilevare che – piaccia o non piaccia – il suo ruolo è stato determinante nella cronaca politica di questi anni. Ad attribuirgli un tale ruolo non sono tanto i meriti o i demeriti che può avere acquisito nella sua attività di governo. E non sono neppure i suoi amici. Tra l’altro, rispetto a tre anni or sono, il numero dei suoi amici è in progressiva discesa, a conferma di come sia inveterata e diffusa, nel nostro paese, non solo la pratica di salire sul carro del vincitore, ma anche quella di discenderne quando questi è in difficoltà. A fare di Renzi il punto di riferimento della politica italiana sono, in realtà, i suoi avversari, vale a dire coloro che ne contestano l’operato e, soprattutto, auspicano il suo definitivo ritiro dalla vita pubblica. Può apparire, il nostro, un paradosso, ma paradosso, in effetti, non è. A ben vedere, infatti, tutte le iniziative, le scelte, le proposte di quanti lo avversano, appaiono ispirate ad un unico obiettivo: quello di costringere Renzi alla resa, di rendergli la vita impossibile, di rimandarlo a casa. Emblematica è, a questo riguardo, la disputa accesa nel partito a proposito della convocazione del congresso. La convocazione delle assise era considerata imprescindibile dagli oppositori del segretario. “Congresso o scissione” era divenuto lo slogan urlato da D’Alema & soci. Ma, quando, finalmente, dopo un estenuante braccio di ferro, Renzi ha detto sì, decidendo di convocare il congresso, ecco il révirement, la marcia indietro: congresso sì, ma non alla scadenza proposta dal segretario, più in là, non prima di ottobre. Era strumentale, dunque, la richiesta di convocazione del congresso; è strumentale, ora, chiedere di rinviarne la data. C’è sempre, insomma, la ricerca di un pretesto per perseguire quello che, come abbiamo detto, è l’unico, vero obiettivo dei suoi oppositori: “rottamare” il “rottamatore”. Null’altro interessa. È giusto o non è giusto, per arrestarne la caduta e rilanciare il Pd, cambiarne la leadership? Non vogliamo qui entrare nel merito di una disputa che, tutto sommato, è di relativo interesse. Quel che, tuttavia, ci sembra debba essere sottolineato è che, in un momento storico che sia sul piano interno, sia su quello internazionale, presenta scenari inquietanti che richiederebbero da parte della politica un grande sforzo di elaborazione di idee, si preferisce concentrarsi in una sterile battaglia nominalistica. Sino ad evocare, sempre più insistentemente una scissione che, a sinistra, ha gli stucchevoli connotati del déja vu. Per dirla con una metafora: si razzola nel cortile di casa, nell’incapacità di volare alto. Che in un partito ci si affronti con durezza, non ci scandalizza. Potrebbe essere, anzi, un segno di vitalità, purché lo scontro avvenga sulle idee, sui programmi, sulle scelte da compiere per rendere un miglior servizio al paese. Ma nello scontro in atto nel Pd non ravvisiamo nulla di tutto ciò. Soltanto l’ansia di far fuori un uomo che si considera scomodo. E questa non è una politica.