Magistratura, sopprimere le correnti ideologiche
Il magistrato Dante Troisi pubblicò nel 1955 “Diario di un giudice”. E, come sovente succedeva in quegli anni con le opere di denuncia, l’autore finì nei guai. Ha scritto tra l’altro “Condannare è come uccidere. La nostra sembra una giustizia a cui importa sospettare e non provare, minacciare e non punire, incriminare più che giudicare. Ogni giorno cresce il numero di indiziati di reato. Presto saremo un popolo di imputati”. Perciò fu sottoposto a provvedimento disciplinare e sanzionato con una “censura”. In realtà il libro racconta la vita di ogni giorno in un Tribunale italiano con verbali di carabinieri e interrogatori e con il racconto dei casi della povera gente. Ne emergono due mondi lontanissimi fra loro: quello della magistratura e quello del popolo in nome del quale la Giustizia viene esercitata. Una riflessione, dolente, impietosa. Elio Vittorini interpretò il testo sottolineando il suo essere specchio di una “società primitiva, impetuosa e insieme come stupefatta di non riuscire ad avere altro di civile che avvocati e giudici”. Nel 1998 fece scalpore “La toga rossa” di Francesco Misiani perché, nel descrivere la nascita della corrente di sinistra Magistratura Democratica vi si afferma che “i magistrati italiani hanno come compito la ricerca di una politica della magistratura che sia capace di inserirsi utilmente nella lotta difensiva e offensiva condotta dal movimento democratico nel suo complesso (…), che ritengono il capitalismo nemico della democrazia (…). che hanno come fine l’’abbattimento dello Stato borghese”. Qualcosa di simile si poteva leggere in una “risoluzione” del Direzione Nazionale del Pci. Stupefacenti le pagine dedicate ai processi che si celebravano negli stadi della Cina maoista, le cui sentenze di morte venivano eseguite immediatamente sotto gli occhi plaudenti del popolo e che Misiani si augurava che un giorno si potessero celebrare anche nel nostro Paese. Nel 2007 il Procuratore Aggiunto di Torino Bruno Tinti ha scritto “Toghe rotte”, nel quale, tra l’altro, vengono denunciati “i vizi nell'esercizio dell'autogoverno della magistratura, dovuti alla degenerazione corporativa delle correnti, che influiscono negativamente sull'efficienza dell’amministrazione della giustizia nel suo complesso e rappresentano la causa non ultima dell'interminabile durata dei processi”. Nel suo libro “ Magistrati”, apparso presso Einaudi nel 2009, Luciano Violante, ex presidente della Camera dei deputati, ha scritto “Con il tempo le correnti dei magistrati si sono trasformate da luoghi di discussione e approfondimento in ben oleate macchine di potere interno. Basti considerare che, prima o poi, tutti i capi corrente sono eletti al Csm. La conseguenza è che oggi, come denunciano molti magistrati, chi non appartenga a una corrente o non sia protetto da un partito, difficilmente arriva a ricoprire incarichi rilevanti. In pratica, e spiace dirlo, bisogna difendere l’indipendenza dei magistrati dalle correnti ideologiche, e bisogna trovare il modo di superare quel corporativismo che i Costituenti speravano di avere eluso stabilendo che un terzo dei componenti fosse eletto dal Parlamento”. Su questa anomalia italiana ho scritto una lettera dal titolo “Quod non dixit non voluit”, pubblicata sul Corriere della Sera il 24 settembre 2012 per denunciare il fatto che l’Associazione Nazionale Magistrati e le varie correnti ideologiche non sono state previste dalla Costituzione e che, pertanto, vanno soppresse. L’Anm è un sindacato di categoria che si contrappone al Parlamento ogni qualvolta è in discussione una legge che li riguarda e che minaccia scioperi ( e li attua) se non sono di suo gradimento. Talchè una seria riforma della Giustizia (se ne parla da decenni ma non si ha mai il coraggio di farla) deve prevedere, preliminarmente, la soppressione dell’Anm e delle correnti ideologiche perché incostituzionali. Fino a quando i magistrati saranno liberi di costituire un loro sindacato e di associarsi in correnti qualsiasi tentativo di riformare questo sistema giudiziario è destinato a fallire.