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Napul’ è ancora… ’na carta sporca

Opinionista: 

Le scaramucce a colpi di editoriali sul “caso Saviano” hanno ancora riempito i quotidiani in questa settimana che si avvia stanca verso la chiusura di una rugginosa e volgare campagna preelettorale. Da Calabresi a Cantone, dalla Boccassini a De Giovanni, per finire ieri a De Cataldo, il mito letterario creato da Saviano - scrivendo di una realtà che a Napoli conoscono e sono costretti a sopportare dai tempi borbonici, e che in Italia e nel mondo era già nota caratteristica di un'abusata oleografia, un senso di ghettizzazione sociale - è servito per pronunciare esegesi critiche sulla sua valenza culturale, sulla necessità assoluta di essere diventato substrato di lucrose serie televisive e materia dibattimentale dal coloro rosso sbiadito. Il fiume in piena della questione partenopea e della sua società malata ha esondato verso lidi sconosciuti, confondendo ad arte, forse sussiste un'attenta regia di marketing, le idee di lettori e ascoltatori. Di fatto il fenomeno “Gomorra” è stato equiparato nella sua valenza mediatica ad altre fortunate serie televisive, amate dal pubblico, che in esse intravede una sorta di rivalsa scenografica tanto da riuscire poi a dormire e svegliarsi nella cruda realtà quotidiana, fatta di soprusi, angherie e prevaricazioni. Il successo del libro, sull'onda di una propaganda ideologica e politica, travalica il giudizio di merito sullo scrittore, sulle diatribiche conseguenze su Napoli, meridione e malavita, per consegnare la materia del contendere ad un più generico dibattito sociale, fondato sulla falsa miliarità di un evento editoriale che "ha acceso la luce su un mondo sotterraneo ed oscuro di cui nessuno aveva contezza"! Saviano, che secondo Calabrese vorrebbe tanto vivere una vita tranquilla da comune cittadino, è stato al Maxxi per fare il punto sui 10 anni dopo “Gomorra”, con lo stesso direttore di “Repubblica”, su quello che secondo i fancultori è stato la nuova “carta costituente” della lotta alla criminalità. In questi 10 anni, la criminalità, a dispetto di Saviano, è cresciuta esponenzialmente; si parla ancora di strade presidiate dall'esercito; la media quotidiana dei morti ammazzati è spaventosa, irrispettosa e devastante; i vecchi clan cedono a gruppi malavitosi sempre più crudeli, autoreferenziati che agitano la notorietà del loro vuoto esistenziale raccontata da “Gomorra”, come una cartina di tornasole per il livello del loro successo. Hanno consacrato a culto medianico, in tinte gotiche, l'orizzonte della propria esistenza, esorcizzando, come idioti cavalieri dell'Apocalisse, la paura della morte, e compiacendosi anche, attraverso strani percorsi di casting, di partecipare a spezzoni del serial, da attori o figuranti, acclamati dalla pletora ignorante e vigliacca dei loro familiari ed accoliti. Calabresi denuncia l'attacco selvaggio alle icone, dimenticando o fingendo di tralasciare l'enorme differenza etica fra icone come suo padre, altri eroi e un giornalista scrittore, ma ricorda anche l'incontro fra Rushdie e Saviano, concludendo che da quello scambio di idee fra i due “condannati a morte” Saviano ha capito la lezione, camminando nel mondo da solo. Io non credo. Saviano continua a camminare dappertutto in buona compagnia, ma a mio modo di vedere, avrebbe esaltato la sua icona, se avesse compiuto un unico gesto, quello di rinunciare alla scorta, per affermare la sua suprema e assoluta libertà di idee e di vita. Intanto alla faccia sua e senza considerarlo più di tanto, la camorra ama fregiarsi di “Gomorra”, e ringrazia. Napoli è ancora ’na carta sporca e insanguinata, il resto è sterile e lucrosa logorrea.