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Nell’arena Cgil la Meloni svela la sinistra delle tasse

Opinionista: 

A viso aperto. È stata una prima volta a suo modo storica quella di una leader di destra al congresso della Cgil. Anche ieri Giorgia Meloni ha confermato che argomenti e coraggio per affrontare gli avversari certo non le mancano. Davanti alla platea inevitabilmente ostile (e anche un po’ intollerante) dei delegati del sindacato rosso, infatti, la premier ha difeso la riforma fiscale appena approvata in Consiglio dei ministri, ribattendo punto su punto alle critiche piovutegli addosso e ribadendo i pilastri del nuovo sistema tributario disegnato dal Governo. La presidente del Consiglio ha fatto bene a rivendicare le scelte fatte, mettendo a nudo così una delle linee di frattura che maggiormente separano la destra dalla sinistra: l’uso della leva fiscale. Per la leader di Fdi dev’essere improntata a stimolare crescita e occupazione; per la sinistra sindacale di Maurizio Landini e per quella politica di Elly Schlein e Giuseppe Conte deve invece servire innanzitutto a «tassare i ricchi», che siccome non dichiarano se non in minima parte, vuol dire colpire il ceto medio produttivo. Altro che “ricchi”. Lo strumento fiscale si rivela così per la sinistra un surrogato del presunto spirito egualitario che ne anima l’ideologia. Meloni ha anche ribadito la volontà di abbassare il costo del lavoro, ma ricordando che se le buste paga sono oggi così zavorrate da tasse e contributi le cause vanno ricercate nei governi che l’hanno preceduta. In ogni caso, la riforma prevede esattamente questo: tagliare la pressione fiscale su chi lavora, chi assume, investe e produce. Tutti argomenti che dovrebbero stare a cuore a un sindacato che dovrebbe avere come propria esclusiva mission la difesa degli interessi dei lavoratori. Invece no. Landini continua a menarla con la solita storia che il fisco della destra farà pagare di meno a chi ha redditi più alti. Il riferimento è ovviamente alla flat tax. Ma si tratta di un fantasma. Di fatto la delega fiscale, stabilendo prima l’entrata in vigore delle tre aliquote Irpef, ha rimandato alle calende greche la flat tax. È un dato evidente: per realizzare la riforma in maniera compiuta, infatti, ci vorranno almeno due anni a partire dall’approvazione della legge in Parlamento; poi bisognerà portarla a regime e solo dopo - eventualmente - si potrà iniziare a ragionare dell’ulteriore passo verso l’aliquota unica. Ma a quel punto la legislatura avrà probabilmente imboccato il suo ultimo tratto. Piuttosto, né Landini né nessun altro esponente della Cgil è riuscito a rispondere a una domanda in fondo semplice: se il Governo propone meno tasse sul lavoro e i lavoratori, perché il sindacato ha bocciato la riforma prima ancora che uscisse dal Consiglio dei ministri? La ragione è semplice: c’è un atteggiamento politicamente pregiudiziale di Landini e compagni, funzionale a una campagna di riunificazione di tutte le forze dell’opposizione - almeno di quelle dell’asse Pd-M5S-Sinistra italiana - che per ora fa premio sul merito delle questioni. Ma la presidente del Consiglio ha confermato che è proprio nella contrapposizione che riesce a dare il meglio di sé. D’altra parte la sua storia politica parla chiaro. Lo si è visto anche in occasione del duello alla Camera con la Schlein. Il capo dell’Esecutivo era perfettamente a suo agio e ha risposto alle accuse della leader Pd col piglio e l’energia che la contraddistinguono. Semmai, se proprio si vogliono ricavare delle indicazioni generali dalle sue ultimissime uscite, sembra quasi che abbia voluto un po’ spogliarsi del vestito molto istituzionale fin qui indossato - peraltro non senza risultati - per rivestire per qualche giorno i panni della battagliera leader di partito della Garbatella cresciuta a pane e comizi. Una postura per lei di indubbia efficacia. Insomma, se la sinistra pensa di battere così la Meloni si sbaglia di grosso. Gli toccherà inventarsi qualcos’altro.